Hatzin fa la seconda media, è in autobus, chiuso nel bagno, prende a calci una guarnizione di plastica, mentre gli altri protestano per entrare. Poi arriva in una landa desolata. Scende. C’è un container, più in là, cintata, una fossa. Hanno ritrovato dei desaparecidos. Lui è lì per ritirare la cassa contenente i resti del padre. È l’inizio magnifico di La caja film in concorso del messicano Lorenzo Vigas. Un’autentica stretta al cuore con quel bimbo che telefona alla nonna per dire che è lì con papà in una modesta stanzetta, in attesa di rientrare il giorno successivo con l’ingombrante cassa. E così fa, solo che nel paesino riconosce un uomo che per lui è suo padre. In fondo lo aveva conosciuto, un po’ se lo ricorda, del resto l’unico segno di autenticazione da parte di chi aveva riesumato i corpi era una carta d’identità sbiadita. Hatzin non molla il colpo. Tampina l’uomo fino a farsi prima tollerare, poi accettare. Ma quell’individuo è un filibustiere, reclutatore di indigeni che vengono praticamente «venduti» alle fabbriche di abbigliamento che li schiavizzano. Il ragazzino si adegua, ma alla lunga comincia a nutrire qualche dubbio sulla scelta di rimanere lì.

C’È MOLTA desolazione nel racconto di Vigas. A partire dalla mancanza di figure paterne, cercate al punto da diventare una piccola ossessione. Poi c’è il lavoro che non c’è. E allora ecco dei poveracci ignoranti turlupinati, cui viene fatto firmare un contratto che li spreme sotto ogni punto di vista, 14 ore al giorno a cucire e stirare, perché altrimenti «i cinesi ci portano via il lavoro». E se qualcuno dovesse avere da ridire le rappresaglie sarebbero durissime, si può sparire nel nulla, senza che nessuno dica nulla. La figura di Hatzin è complessa. Lui sa leggere, scrivere, fare di conto, non lo si imbroglia facilmente, solo che è disposto a tutto per compiacere il presunto padre. In una realtà in cui il diritto sembra essere molto aleatorio, conta solo la dirittura morale e quando c’è vacilla può succedere qualsiasi cosa.
Ancora una volta si potrebbe dire che il mondo è salvato dai ragazzini, unici in grado di distinguere ancora il bene dal male. Gli adulti sono ottenebrati. Chi dall’ignoranza, chi dal ruolo, chi dalla vogli di denaro facile. E allora tocca fare riferimento alla abuela, lontana ma vicina col sentimento, con l’attenzione per quel bambino mandato in mezzo ai lupi. Lorenzo Vigas, venezuelano d’origine, è in realtà un biologo, convertito al cinema dopo aver seguito un corso a New York. Per fortuna perché è già stato insignito di un Leone d’oro nel 2015 per Ti guardo, anche quella una brutta storia paterna prepotente nella sua capacità di emozionare. Ora ci riprova affidandosi al volto di Hatzin Navarrete, un piccolo personaggio che si può smarrire nei paesaggi avvolgenti e gelidi del Nord messicano, ma che può anche ritrovare se stesso dietro i segni lasciati da quell’esperienza. Segni che in futuro, almeno sul viso, passeranno.