Eftimios 15/41. La caduta dietro il tavolo e i suoi occhi.

Scendendo le scale interne della casa tra gli alberi al lago lo vedo cadere dietro il tavolo.

Si rialza a fatica, e i suoi occhi mi chiedono: «Perché sono caduto, papà?» Perplessi scrutano i miei occhi. Avanzo piano, non corro, non lo aiuto. Si siede. «Stavi pensando ad altro?» Non risponde, mi guarda senza lasciare i miei occhi, né io i suoi. Non dubito. Ha dubitato alla fine, Eftimios?

Quella sera mi ha guardato a più riprese, sorvegliando i miei gesti, i miei occhi. Perché non l’ho ucciso durante una delle sue ultime notti immobili? Prima che dubitasse. Potevo farlo, e nessuno avrebbe saputo, forse lo avrebbe capito il dottore che lo seguiva, un San Luigi napoletano in forma di medico di campagna. Non l’ho fatto perché era sereno, fino alla fine degli ultimi giorni. Gli bastava poco per vivere, e aveva quella dote propria dei grandi esseri umani di fare, di poco, di niente, tutto.

Quella notte della caduta era una notte di luna piena. Ci siamo affacciati, lui ed io, dopo, alla grande finestra rivolta a mezzogiorno: il lago, la striscia di terra, il mare, più vicino a noi i boschi, vicinissimi gli alberi da frutto, da ombra, da arrampicata. Luce azzurro grigia della luna nelle sere d’estate! I contorni delle piante sfumano nella terra, i contorni della terra nel mare, e del mare nel cielo.
Silenzio stupefatto. Tutti tacciono, le civette, i cani, l’usignolo s’affila piano il becco aspettando l’ora prima dell’alba. Stiamo zitti anche noi. Mi mette una mano sulla spalla.

I suoi occhi di luce di luna, quella sera. Come ha fatto Eftimios a resistere tanto, con quella leggerezza tanto dolore? I dottori e le dottoresse non capivano. Pensavano fosse tutto merito nostro, di Nefeli, di Alexandra, mio. Dell’ambiente. Da quando gli esseri umani non credono più a Dio, credono nell’ambiente.

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