C’è un’immagine che racconta molto di questo 2018 quasi finito, e che in qualche modo contiene anche le sfide che ci aspettano: un signore, regista molto amato e acclamato sul set di un film nella «sua» città, New York, dà indicazioni agli attori. Lui si chiama Woody Allen, il film è A Rainy Day in New York, non lo abbiamo visto – ed è la prima volta con lui in vita che non c’è un film di Allen nell’anno – e neppure lo vedremo almeno in sala visto che la produzione, Amazon (sembra che andrà in streaming su Amazon Prime quasi clandestinamente), ha deciso di bloccarlo con tanto di comunicato ufficiale a fine agosto.

Le ragioni? Le accuse di molestie mosse contro di lui da Dylan, la figlia adottiva di Mia Farrow – a sua volta feroce nei confronti dell’ex-compagno.
La vicenda, intricata e tristissima, risale ai primi anni Novanta, quando Dylan aveva sette anni, la coppia Allen-Farrow si stava separando e la relazione del regista con Soon-Yi Previn, la sua attuale moglie, anche lei figlia adottiva di Mia Farrow, era divenuta pubblica. Ci sono state accurate indagini prima che Allen venisse riconosciuto del tutto estraneo a quanto gli si imputava, eppure quello che appare più il segno di una (seria) disfunzione familiare ha continuato a essere tirato fuori ciclicamente nel tempo contro di lui ma senza effetti così pesanti.

La differenza a Hollywood e nel mondo l’ha determinata il movimento #MeToo. È la stessa ragione che ha spinto a scagliarsi con nuova veemenza contro Roman Polanski (i si dovrebbe vedere nel 2019 il nuovo film, J’accuse, ispirato all’affaire Dreyfus) dimenticando che per la presunta violenza – di cui il regista mai ha parlato, forse il solo suo film che vi rimanda e assai obliquamente è Chinatown – la ragazza di allora, Samantha Geimer, ha chiesto al tribunale di Los Angeles di chiudere il caso. O di cancellare all’improvviso da House of Cards il personaggio di Kevin Spacey accusato di essere un molestatore seriale di ragazzetti. Ovviamente ognuno dei casi denunciati in questi mesi, che coinvolgono nomi più o meno noti, è diverso, sono diversi i presupposti e le conseguenze che dovrebbero riguardare la giustizia, la morale, le inchieste.

Di certo la censura non può diventare una pratica e una risposta rispetto a questo. E specie in una materia così sensibile e importante come quella messa in gioco dal #MeToo, ovvero la presa di parola delle donne verso una condizione culturale, sociale, economica radicata nell’esercizio del potere. Confondere i piani può essere molto rischioso perché il ricatto sul lavoro, la minaccia, il mobbing, la violenza, la diseguaglianza salariale non trovano soluzione nell’oscurantismo, al contrario è come se agitando «le vite nascoste» delle star – e le loro punizioni – si spostasse l’attenzione dalle priorità

Intanto nel nome di #MeToo oggi si ripensano le storie, si fa attenzione agli equilibri, si millimetra l’immaginario:il risultato, già evidente, è quello di un diverso conformismo, di una variante del controllo che imbriglia il pensiero libero nel «politicamente corretto» – il film di Allen, pensiamo un po’, parla dell’attrazione tra una ragazza giovane e un quarantenne. In questa nuova caccia alle streghe oggi Lolita andrebbe al rogo.
Gli eserciti dei moralisti, dei perbenisti, sono però anche quelli che nel tempo hanno costretto le donne al silenzio – e che l’arma del giustizialismo sia come una mannaia lo prova quanto accaduto a Asia Argento, una delle voci più ferme del movimento #MeToo, cacciata da X-Factor e coperta di insulti per avere fatto sesso con un ragazzo più giovane, Jimmy Bennett, attore in un suo film. Questa presa di parola spaventa, destabilizza come gli immaginari irriverenti, liberi, che accendono il cervello ma l’oscurantismo per ogni gender è la minaccia peggiore. La scommessa del nuovo anno comincia qui.