«Parliamo del programma, non di nomi» è il super classico di questi giorni qui, quelli in cui si prova a fare un governo. Partendo dai ministri, dai nomi. Non certo dal programma. Mentendo, Di Maio recita un copione secolare anche se prova a spacciarlo per nuovo. Probabilmente anche Fanfani sessant’anni fa, mentre cavalcava le correnti Dc, avrà giurato che stavano discutendo di programmi. Non di nomi. Di certo Fanfani parlava già di «ampie convergenze». Come Di Maio ieri.

Di Maio e Salvini stanno ovviamente e legittimamente discutendo di nomi. Innanzitutto di un nome, quello del presidente del Consiglio. Ne stanno anzi solo discutendo: conclusioni non se ne vedono. Anche perché i due si sono infilati in un labirinto. Da soli. Nessuno dei due può accettare che presidente del Consiglio sia l’altro. Vorrebbe dire perdere in partenza. Quindi serve il «premier terzo», che in quanto tale non può essere né del Movimento 5 Stelle né della Lega. Ma non può essere neanche un non eletto, o non potrebbe dal momento che sia Salvini che Di Maio hanno passato i due mesi di campagna elettorale e i due mesi successivi – fino a tre giorni fa – giurando che l’era dei tecnici è chiusa per sempre. Ricordate Salvini? Ha già giurato da premier in piazza Duomo a Milano. Ha giurato sul «sacro Vangelo», sventolando un rosario e concludendo un comizio. Ha chiamato il suo partito «Salvini premier». Scherzava. Ricordate Di Maio? È più semplice, risale a un mese fa: 11 aprile. «Io cedere la premiership? Non posso farlo. Non saprei come spiegare agli italiani che un soggetto terzo, che ha preso zero voti, possa diventare premier mentre Di Maio che ha preso 11 milioni di voti deve fare un passo indietro». Nel frattempo avrà trovato le parole.

Per uscire dal labirinto, il «leader del centrodestra» e il «capo politico del Movimento 5 Stelle» devono urgentemente trovare, entro lunedì, un premier politico non troppo politico, un po’ tecnico ma non troppo perché «gli italiano hanno detto basta a presidenti del Consiglio non eletti» (Di Maio, 4 aprile). Uno che sia competente e autorevole, ma disponibile a schiacciarsi in mezzo ai due azionisti di maggioranza che probabilmente lo scorteranno dentro al Consiglio dei ministri con le due deleghe più pesanti. È una ricerca impossibile, dovranno per forza rinunciare a qualcosa. Stanno dando la caccia a una chimera. Del resto Berlusconi, quando ancora non si era rassegnato a dare il suo via libera, aveva detto che il governo tra Salvini e Di Maio sarebbe stato «un ircocervo». Siamo lì.

Siamo alle conseguenze di una campagna elettorale bugiarda, nella quale Salvini e Di Maio si sono presentati come se si trattasse di votare il capo del governo. E poi, il 5 marzo, hanno raccontato tutti e due di aver vinto. Senza avere i voti per governare. Se «vincere» significa, nel loro linguaggio, andare a palazzo Chigi, allora chi ha vinto davvero le elezioni ancora non lo sappiamo. Non lo sa nemmeno lui, il «vincitore».
Perché a volerli prendere sul serio, Salvini e Di Maio in questi giorni stanno discutendo «delle cose da fare», del programma. Anzi, del «contratto». «Prima i temi e poi i nomi – ha detto ancora ieri il capo grillino – in base a quello che vogliamo fare sceglieremo chi lo deve fare». Dunque dovremmo credere che in Italia (o su Marte?) c’è qualcuno che tra un po’ riceverà il mandato di applicare un programma che non sta scrivendo e che forse neppure conosce. E questa sarebbe la bella notizia?