Ci manca tanto Jean Baudrillard, soprattutto la sua capacità di leggere i fenomeni sociali della nostra epoca con quello sguardo duplice, apparentemente sfocato eppure incredibilmente profondo e tagliente nella sua radicalità. Ci manca la sua vocazione a utilizzare i concetti non come semplici ornamenti di un sapere positivo e nemmeno come astratte categorie di analisi critica, ma come una cassetta degli attrezzi di cui servirsi per forzare le serrature della realtà. Ci manca quel suo modo di adoperare il pensiero come un arnese da scasso, mettendo allo scoperto quelle regole e quei principi che proprio del sapere fanno una forma di dominio sulla realtà.

SOCIOLOGO, filosofo, teorico dei media. Ma soprattutto autore dibattuto, incompreso, banalizzato e spesso ferocemente criticato in modo ingeneroso per le sue trovate a effetto, per l’ironia e il sarcasmo con cui era in grado di cogliere «il lato paradossale di un evento» lasciando tuttavia l’impressione di non «poterne definire i contorni e la dimensione più vasta, sistematica o sistemica».
Per questa sua non comune capacità di occuparsi degli argomenti più disparati, dalla Guerra del Golfo a Disneyland, dall’attentato alle Torri Gemelle ai funerali di Diana, passando per la rivolta delle banlieues e la funzione ideologica dell’erotismo, Baudrillard è stato spesso considerato come uno dei più importanti esponenti del post-moderno, termine diventato una sorta di etichetta da affibbiare a una costellazione variabile di autori e posizioni teoriche tutte riconducibili a un generale approccio relativistico e a una prospettiva decostruttivista, irrazionale, irrealista, quando non addirittura reazionaria e anti-progressista.

GIUDIZIO QUESTO, come già detto, assai ingeneroso e approssimativo, e che «proprio riguardo Baudrillard, sembra sbagliare il bersaglio», smascherando una sostanziale incomprensione delle sue posizioni teoriche e della sua cifra speculativa.
A dare un bilancio della sua eredità culturale e scientifica ecco allora la raccolta di saggi Baudrillard ovunque, curata da Vanni Codeluppi e Maria Angela Polesana (Meltemi, pp. 174, euro 15). Il volume (che raccoglie le riflessioni di alcuni studiosi che hanno partecipato al convegno Jean Baudrillard e la teoria dei media tenutosi lo scorso anno presso lo Iulm di Milano, a dieci anni dalla scomparsa del pensatore) costituisce una sorta di prontuario teorico in cui i contributi si focalizzano attorno a delle parole chiave, concetti, autori e temi che sono centrali e particolarmente rilevanti all’interno dello sterminato percorso di ricerca di Baudrillard.

IL SUO UNIVERSO simbolico viene qui scandagliato e sezionato focalizzandosi sugli snodi e sulle relazioni fra i fenomeni. Riscopriamo così che il reale, nella sua relazione con il virtuale e con l’immaginario, non è da intendere come «qualcosa di razionale, ma di operazionale», ovvero un fenomeno in cui è l’uomo, l’individuo, a diventare «un mero operatore della tecnica, un performer dei media pronto a ibridarsi con le macchine che lo circondano». Scopriamo che non solo il medium è il messaggio, secondo le parole di McLuhan, ma che è soprattutto quel luogo d’esperienza in cui, per dirla con Benjamin (altro autore caro a Baudrillard), la relazione tra tecnologia e umano si sviluppa nei termini di una innervazione, per mezzo della quale il corpo entra in rapporto fisico con «una dimensione esterna all’essere umano ma in costante interazione con esso». Il medium non più come veicolo di informazioni e rappresentazioni simboliche, ma come un vero e proprio «mondo in cui entrare». Si comprende, così, come per Baudrillard fosse possibile «dimenticare Foucault» (per citare il titolo di un suo famoso e controverso pamphlet) non per l’inutilità della sua analisi ma, al contrario, per la pienezza semantica ormai raggiunta dal concetto di «dispositivo». Quello in cui viviamo oggi è infatti un mondo in cui i media tecnologici non soltanto reagiscono agli stimoli dell’umano o sono in grado di anticiparne e determinarne le scelte ma, con la loro presenza pervasiva in ogni ambito dell’esistenza, sono addirittura in grado di far scomparire la realtà, «mostrandola senza realizzarla nella sua concretezza».

COME INTERPRETARE perciò la sentenza di Baudrillard sulla perdita e sulla fuga del reale? Esemplare è il caso della Guerra del Golfo, quella guerra che non ha mai avuto luogo lasciando spazio all’iperrealismo mediatico di una narrazione dominante e spettacolarizzata, osservata attraverso «il punto di vista delle telecamere montate sui razzi bomba lanciati per interventi chirurgici».
Sono affermazioni di fronte alle quali non bisogna scandalizzarsi, bensì riflettere. Più o meno la stessa cosa ebbe a dire Karl Heinz Stockhausen a pochi giorni dall’attentato al World Trade Center, definendolo «la più grande opera d’arte mai realizzata». A dimostrazione di quanto fosse ormai evidente come da allora in avanti la guerra sarebbe entrata in gioco sotto nuove forme: quella del terrorismo, sua «continuazione estrema». O ancora «come beffa, come mascherata e carnevalata» in cui il potere sovversivo dell’evento viene ridotto a semplice elemento del sistema, e dove la complicità di questo scambio simbolico fra il terrorismo e il sistema stesso si mostra finalmente nella sua possibilità estrema: «in quanto scambio suicida».