Attorno alle ore 21.40 le forze armate israeliane annunciano con un semplice tweet che la grande operazione di terra nella striscia di Gaza è cominciata. Proprio mentre andiamo in stampa, i carri armati di Tel Aviv sono penetrati nella zona Nord Est della Striscia, che da qualche ora è senza corrente e completamente isolata. Bombardamenti pesanti, anche vicino agli edifici occupati dai giornalisti, martellano le case da qualche ora.

Eppure la giornata era iniziata con una pallida speranza.
Alle 8 di mattina settanta-ottanta persone erano già lì, ferme all’ingresso delle banche. Alle 9.30, mezz’ora prima dell’inizio della tregua «umanitaria», sono centinaia e centinaia quelli in fila davanti agli sportelli bancomat della Bank of Palestine di via Omar al Mukhtar. Maher, un insegnante, si asciuga la fronte, il caldo è insopportabile.

«Sono arrivato alle 8.30, speravo di trovare meno gente e invece…», commenta continuando a passarsi un fazzoletto di carta sulla faccia e il collo.Le cinque ore della “tregua umanitaria” strappata dall’Onu a Israele e Hamas, Maher, un dipendente dell’Autorità nazionale palestinese, le trascorre sotto il sole, in fila, per riscuotere lo stipendio in arrivo da Ramallah. Sopportando la sete. Perché è Ramadan e non si mangia e non si beve dall’alba al tramonto. Scelta obbligata, con Gaza sotto gli attacchi aerei israeliani. Avere un po’ di soldi a disposizione è vitale. Il nostro insegnante alla fine è riuscito a inserire la sua carta di credito nella fessura magica e a ricevere le tanto attese banconote. Una gioia che ieri hanno provato tante altre migliaia di dipendenti dell’Anp ma non i 40 mila impiegati dei ministeri del disciolto governo di Hamas. Davvero paradossale se si tiene conto che coloro che ieri hanno percepito lo stipendio non lavorano dal 2007, da quando le autorità di Ramallah li ammonirono dal cooperare con Hamas, in alcun modo.

Chi ha lavorato invece si è ritrovato senza reddito e un lavoro da un giorno all’altro, grazie proprio alla nascita del “governo di consenso nazionale” a inizio giugno. Il presidente Abu Mazen, il premier Rami Hamdallah, i dirigenti di Hamas, dopo la “riconciliazione” non hanno pensato a come unire le strutture amministrative di Gaza e Cisgiordania e a dove reperire i fondi per garantire lo stipendio a tutti gli impiegati palestinesi, senza eccezioni. Anche questo, unito alle catene dell’assedio israelo-egiziano che soffocano Gaza, ha contribuito ad aggravare la rabbia di chi non può e non vuole più vivere in queste condizioni.

Questi 40 mila “esodati” non erano ieri nei mercati a comprare generi di prima necessità. Non erano assieme agli altri palestinesi che hanno approfittato della breve pausa nei bombardamenti aerei israeliani per fare provvista in una città passata nella stessa giornata dal silenzio alla vita e ancora al silenzio rotto solo dalle esplosioni delele bombe. Molti negozi sono rimasti chiusi. Ha aperto invece il supermarket “Metro”, quello dove spendono i palestinesi benestanti, una frazione minima della popolazione che può permettersi di comprare generi alimentari di qualità, importati. Eppure anche un palestinese ricco è un prigioniero come quelli più poveri, non può concedersi il lusso più importante: la libertà.

In giro per Gaza, per lavoro e per comprare qualcosa da portare a casa, incontriamo Sami Abu Omar, di Bani Suheila ed ex studente universitario a Pisa. «Queste ore di tranquillità sono per tutti noi uno spiraglio, ci danno un po’ di respiro», ci dice. Abu Omar tuttavia si rende conto che questa “protezione” una tantum non è destinata a sfociare subito in un accordo di tregua permanente. «Non creamoci illusioni – avverte – la distanza tra le parti è enorme. Magari domani (oggi) verrà fuori qualcosa di concreto dall’incontro al Cairo tra Abu Mazen e (il leader di Hamas) Khaled Meshaal ma dovranno lavorare tanto». E’ il cambiamento sostanziale della situazione a Gaza il vero obiettivo della trattativa in Egitto. Un cessate il fuoco che non metterebbe fine alla condizione di questo martoriato e assediato fazzoletto di terra palestinese non basta più alla gente di Gaza. Poco importa chi sia a portare avanti il negoziato a distanza con Israele, Hamas o Fatah, Meshaal o Abu Mazen, i palestinesi della Striscia non possono più aspettare. «Abbiamo bisogno di tutto – spiega Sami Abu Omar – questa terra ha subito sei guerre negli ultimi cinque anni.

Se Gaza resta sotto assedio di Israele, con il valico di Rafah chiuso (dall’Egitto) non si potrà nemmeno creare lavoro. Il 45% della nostra gente non ha un’occupazione, il 40% vive sotto il livello di povertà. E sono solo alcuni dei problemi che la mancanza di libertà ci sta provocando. Ecco perchè non ci basta più solo la tregua».
Avremmo dovuto ascoltare bene le parole di Sami Abu Omar e invece anche noi ci siamo fatti prendere dall’entusiasmo quando ieri, intorno alle 13, sono cominciate a circolare voci insistenti, diffuse inizialmente dalla Bbc, di un accordo tra Hamas e Israele ormai fatto e di una tregua che sarebbe entrata in vigore già questa mattina.

A rallegrarsene erano più gli stranieri. Naturalmente anche i civili palestinesi desiderano la fine delle ostilità. Con troppe vite umane, molto spesso di donne e bambini, hanno pagato la violenza degli attacchi aerei israeliani, circa 2000 in soli dieci giorni, che hanno causato quasi 240 vittime.

Anche ieri sono morti ben cinque bambini palestinesi in vari attacchi aerei e le sirene di allarme hanno risuonato in numerose città israeliane. Tel Aviv ha comunicato l’abbattimento di un altro drone partito da Gaza. Così quando prima Hamas e poi anche Israele hanno smentito il raggiungimento dell’accordo, i palestinesi non hanno fatto una piega, o quasi. Sanno che in Egitto si sta giocando una partita che potrebbe decidere il futuro di Gaza nei prossimi anni. «Lo stesso Hamas è sulla graticola – ci spiega in condizioni di anonimato S.A., un giornalista di Gaza – sta giocando la partita dello scontro militare aperto con Israele e ora deve raggiungere dei risultati concreti, non può accontentarsi di ottenere un cessate il fuoco con qualche piccola concessione di Israele. Ha promesso il cambiamento radicale della condizione di Gaza e deve ottenerlo, altrimenti perderà consensi». Inutile rimarcare, ci dice, che l’attacco con razzi a Israele gode di un forte appoggio a Gaza così come la brutalità dell’offensiva aerea contro la Striscia raccoglie larghissimo consenso tra gli israeliani, nonostante l’alta percentuale di vittime civili palestinesi.

E’ stato minacciato di morte Gideon Levy, noto giornalista di Haaretz, che nei giorni scorsi aveva scritto un duro articolo di condanna dei piloti israeliani impegnati a bombardare Gaza. Ora Levy si muove solo con la scorta.

Hamas non solo vuole ma deve spezzare l’assedio imposto a Gaza da Israele e dall’Egitto se vuole conservare il sostegno della popolazione palestinese e per questo si affida alla mediazione del Qatar e della Turchia, rimasti gli unici sponsor nella regione della Fratellanza Islamica dopo il sanguinoso colpo di stato militare che ha rovesciato il presidente islamista Mohammed Morsi. Hamas chiede che il valico di Rafah diventi un posto di transito internazionale – magari coinvolgendo dopo ben sette anni gli osservatori dell’Eubam rimasti parcheggiati ad Ashqelon a spese del contribuente europeo -, che sia riattivato l’aeroporto di Rafah e che a Gaza City sia costruito un porto commerciale. Il movimento islamico inoltre non intende rinunciare al suo arsenale bellico e chiede la liberazione di centinaia di suoi militanti arrestati il mese scorso in Cisgiordania. Infine vuole che Israele non ostacoli le attività dell’esecutivo palestinese di unità nazionale.

E’ arduo credere che il governo Netanyahu, composto da formazioni di estrema destra che invocano in questi giorni la rioccupazione militare di Gaza, possa accettare tali richieste. Israele vuole in realtà assestare un duro colpo a Hamas e ai suoi apparati militari e crede che la tregua dovrà necessariamente includere la distruzione delle armi del movimento islamico. Israele è disposto ad astenersi, ma solo su una rigida base di reciprocità, dall’aprire il fuoco verso Gaza. Di fatto Netanyahu non si oppone soltanto alla riapertura del transito di Rafah sotto un controllo congiunto da parte di Egitto e dell’Anp di Abu Mazen. Intanto ieri le Nazioni unite hanno protestato con forza dopo la scoperta in una scuola dell’Unrwa di una ventina di razzi palestinesi. «Questo incidente, che è il primo del suo genere a Gaza – denuncia l’Onu – mette in pericolo i civili e il nostro staff e pone un rischio per la missione dell’Unrwa che è quello di assistere e proteggere i profughi palestinesi».