Un ragazzo coi capelli biondi chiarissimi, gli occhiali e una pronuncia che ricorda la periferia sud di Roma mi dice che l’appuntamento all’ispettorato del lavoro è per domattina. «E chi andrà a parlare con gli ispettori?», chiedo. E lui: «tutti». Cioè «tutti quelli che domattina riusciranno a liberarsi da altri impegni e venire».

È il 2005 e per la prima volta mi è chiaro un concetto. Si può fare politica senza delegare qualcuno e senza prendersi la delega di qualcun altro. Senza schede elettorali, primarie ai gazebo o votazioni online.

Il biondo fa parte di un collettivo senza leader, senza portavoce. Ognuno porta la voce propria e la mette a disposizione del collettivo. Quando i giornalisti raccontano le lotte dei lavoratori del call center Atesia di Cinecittà non riescono a indicare un nome più rappresentativo di altri. Non c’è una fotografia che mostri una faccia che meglio riassuma la lotta di quella piccola comunità di lavoratori. Uno vale uno. Anzi, uno non vale niente. È l’insieme che prende valore.

QUATTORDICI ANNI dopo leggo il libro di Michela Murgia e ci trovo le stesse storie di tante comunità piene di persone che non sono state arruolate nella fanteria di una lotta comandata da qualche generale, uno di quelli che dà il nome a piazze e strade, finisce sui francobolli e i libri di storia. La loro faccia non ha fatto da sfondo a quella di un leader, la loro voce non è stata l’accompagnamento musicale per il discorso del capo.

Trenta anni fa a Berlino un pezzo di Storia è stata fatta così. Inizialmente verso il muro che divide in due la città non si muovono centinaia o migliaia di persone «ma solo qualche decina. Nell’arco di un’ora però cominciano ad arrivare sempre più numerosi i berlinesi da tutti i punti della città», scrive Michela nel racconto Sinfonia berlinese o di liberazione. Il 9 novembre del 1989 «il membro del Politburo Schabowski dà senza volerlo un’incredibile informazione sbagliata: ’Ah… oggi abbiamo deciso su un nuovo regolamento che rende possibile per ogni cittadino della repubblica Democratica Tedesca di… uscire attraverso i posti di confine’». Il poliziotto che vede arrivare quel piccolo pezzo di popolo potrebbe sparare, ma non lo fa.

È UNA SCELTA DETTATA dalla responsabilità, dalla speranza o dalla paura. Forse è soltanto indecisione, ma non ci prova nemmeno a frenare la breve rincorsa che sta per aprire un passaggio in uno dei confini più rigidi e simbolici del novecento. Furono scelte o tentennamenti di singole persone che, però, non avrebbero cambiato nulla se un’armata pacifica non si fosse mossa. «Fu la fine di una barbarie in sé – dice Michela – a prescindere dalle ideologie. Per le persone che lo hanno buttato giù è stata prima di tutto la fine di un’assurda separazione di affetti personali e di destini comuni».

Noi siamo tempesta. Questo è il titolo del nuovo libro di Michela Murgia edito da Salani (pp. 122, euro 16,90). Un testo per ricordare ai più giovani, ma non solo, che è possibile vivere in un mondo senza eroi. Senza capi banda che mettono il nome su un simbolo, che contano i followers come tanti zeri per trasformare l’uno in cento, in mille, in milione.

MA TRA I RACCONTI di Murgia ci sono anche i protagonisti con nome e cognome. C’è Maria Lai, artista sarda di Ulassai, paese tra le rocce dell’Ogliastra che gli ha dedicato uno splendido spazio per custodire 150 tra le sue opere più importanti. Per il suo paese ha realizzato Legarsi alla montagna, «la prima opera internazionale di Arte relazionale». L’artista «decide di legare fisicamente il suo paese al monte che lo sovrasta, dopo aver legato le case l’una all’altra». E se non ci fosse stata lei, chi altro avrebbe stretto insieme i pezzi di quella comunità? Michela dice «che, in assenza di un artista, le comunità si coordinano solo in presenza di un interesse comune riconosciuto, che si presenta più facilmente in forma di bisogno o di pericolo». E questo processo lo conosciamo bene. Nel corso della storia ci siamo uniti contro ebrei, zingari e ogni tipo di straniero. Ma per fare in modo che il «motore sia la bellezza e non la paura serve qualcuno che la bellezza la sappia riconoscere. A questo servono gli artisti», dice.

E a questo serve anche il libro che lei ha scritto con Paolo Bacilieri e The World of Dot che lo hanno riempito di belle immagini. Un libro per ragazzi che hanno l’opportunità di diventare grandi senza essere lasciati soli con un sogno che non si può condividere.

Perché puoi crescere sperando di diventare il primo uomo su Marte, il capocannoniere del campionato di calcio o semplicemente ricco. Secondo un’indagine un ragazzo su cinque vuole fare lo chef perché l’ha visto nei programmi che vanno tanto di moda. Dunque non un bravo e anonimo cuoco, ma una star. Tra le bambine va molto la cantante. I poliziotti piacciono a entrambi i sessi. Ma la domanda è posta in maniera sbagliata.

Dobbiamo smettere di interpellare nostro figlio o l’alunno che viene interrogato alla lavagna. Adesso abbiamo l’opportunità di chiederlo almeno a due ragazzi contemporaneamente, meglio se sono una decina. Cosa vorreste fare insieme da grandi? E allora ci accorgeremo che le risposte cambiano.

Io diventa Noi. E insieme diventiamo Tempesta.