Le Memorie di Ettore Modigliani, 1873-1947 (a cura di Marco Carminati, Skira, euro 25,00, pp. 303), iniziano con una breve prefazione in cui il direttore della Pinacoteca di Brera elenca le ragioni che lo hanno spinto all’autobiografia. La più interessante è la terza: dopo anni al servizio dello Stato con incarichi, responsabilità e notorietà conseguenti, «scomparvi improvvisamene dalla scena, dileguato senza che si sapesse il motivo». I motivi di questa temporanea scomparsa emergono un po’ alla volta, e sono il nodo sul quale il libro si chiude. Non è solo un espediente narrativo, se pure Modigliani è uno scrittore abilissimo. Quello che gli preme è raccontare, dal proprio punto di vista e «anche a costo di mettere a nudo quelle che furono le dolenti piaghe del mio spirito», una carriera che è stata ed è messa in quel momento in discussione. Salvarla, e salvarsi, da una damnatio memoriae che rischia di distruggere i risultati di un impegno svolto dall’avamposto di Brera «come su una barricata». Infine, dare il resoconto disperante di come non solo il ruolo di funzionario, ma la sua stessa vita subisce gli scossoni rischiosissimi dalla prepotenza del potere fascista prima e dalle leggi razziali poi. È quindi immediatamente esclusa la tentazione di camuffarsi dietro la terza persona ed è un dovere morale e civile dare a tutti i citati un nome e un cognome (e quanto sarebbe stato utile almeno un indice dei nomi, se non un apparato critico vero e proprio…).
Modigliani si sofferma sulla propria infanzia solo per qualche riga. Va dritto al sodo: dopo i viaggi con la famiglia e la scoperta dei musei e dei primi numi tutelari – «il teatro era la seconda attrattiva della mia vita» –, ecco l’incontro con Adolfo Venturi, «l’apostolo» degli studi storico-artistici, la Scuola di perfezionamento e l’ingresso nell’Amministrazione delle Belle Arti come vice ispettore alla Galleria Borghese. Nel 1909 diventa soprintendente alle Gallerie e ai Musei Medievali e Moderni della Lombardia e quasi contemporaneamente direttore del Regio Ufficio per l’Esportazione degli Oggetti d’Antichità e d’Arte di Milano.
E qui l’autore rallenta. L’ingresso in città, dove sostituiva Corrado Ricci, non è facile. La stampa lo osteggia, è estraneo alla politica, frequenta pochi amici e scopre Milano un po’ per volta grazie alle sue «figure più caratteristiche». Personaggi i cui soli nomi evocano quella miscela di erudizione e sentimento tardo romantico che, come gli anelli d’acqua dei navigli, ancora cingevano «el noster Milanin»: Guido ed Enrico Treves, Arrigo Boito, Luca Beltrami, Giacomo Puccini, il «Pogliaghin»… Più tardi, su incitazione di Ricci – «l’induca a comprare piuttosto un bel quadro antico che un cavallo da corsa o un gioiello di più per un’amante» –, intreccia rapporti con il mondo del collezionismo privato lombardo stringendo amicizie vitali come quelle con Luigi Albertini e Guido Cagnola: ottiene così finanziamenti per acquisti, restauri e doni per i musei cittadini, perché «acquistare per il proprio Museo o quello di un’altra grande Città» opere come la Natività giovanile di Correggio, già Crespi, o il San Pietro e San Giovanni Evangelista e la Madonna con il Bambino e San Giovannino di Giovanni Agostino da Lodi, o la raccolta Sambon, primo nucleo del Museo Teatrale alla Scala, «o redimere un capolavoro salvandolo da grave deperimento – fosse il “Cenacolo” di Leonardo, o la Pala Portuense di Ercole de’ Roberti… – è quasi come avere un figliolo, significa sentire che non si muore, un giorno, definitivamente, ma si lascia nel mondo un’impronta, anche una minima impronta, della propria azione e della propria volontà». Dall’ufficio milanese, per ventotto anni, in un inestricabile groviglio di umanità, lavoro e passione, Modigliani si trova ad affrontare momenti difficili. Tra ’16 e ’19 si prodigò in un estenuante lavoro di sgombero delle opere d’arte da chiese e musei minacciati dall’invasione austriaca; negli anni successivi cercò di arginare, almeno per ciò che riguardava i suoi compiti, l’azione dello strapotere del partito fascista il cui capo «si vantava d’essere entrato una sola volta in un museo».
Il libro, rimasto fino a ora manoscritto presso gli eredi ma più volte sondato da ricercatori e storici dell’arte, è uno spaccato vivido di una lunga e operosissima attività. Concepito probabilmente durante i mesi del confino a L’Aquila e terminato subito dopo la Liberazione, le Memorie erano quasi pronte per la stampa quando Modigliani morì. Sono pubblicate a settant’anni di distanza come la terza parte di un affondo tutto braidense che, con gli scritti di Franco Russoli e la biografia di Fernanda Wittgens, esplora le forme novecentesche della Pinacoteca di Brera attraverso le esperienze dei suoi più importanti direttori leggendo, nel travaso senza discontinuità delle loro competenze, un’idea di cultura e di museo che ha lasciato traccia.