Nell’intenso periodo di metà anni Sessanta, in testi coevi alla stesura del Calderón (in particolare in Il cinema di poesia), Pasolini coniava la nozione-chiave di «libero indiretto» per comprendere da un punto di vista stilistico come funzionava, per esempio al cinema, la questione della poeticità dell’immagine, l’idea che lo sguardo dell’autore potesse emergere nella sua forza autoriflessiva senza disgiungersi del tutto dal carattere empirico dei personaggi. I quali rappresentando se stessi rappresentano anche l’autore, o meglio ne divengono intercessori, qualcosa di ben diverso dagli alter ego: questi ultimi sono dei «somiglianti», i primi sono invece «eterogenei» all’autore, pur prendendosi carico del suo punto di vista: possono incarnarne una posizione etica, politica, linguistica, pur rimanendo se stessi. Nel caso degli alter ego la rappresentazione tende a suturarsi, per gli intercessori no: quest’ultimi contano anche per lo scarto che li differenzia dal punto di vista dell’autore e per il processo che ha portato a costituirli. La Rosaura del Calderón è uno dei grandi intercessori pasoliniani e incarna un tema centrale nella visione tragica del mondo: la mancanza di riconoscimento («Ma io ieri non ero qui, non ci sono mai stata, non riconosco niente di quello che c’è qui …»).

Il riconoscimento di sé e del mondo è legato a quello degli altri, e non è segnato da istanze epistemologiche. Riconoscere non significa conoscere due volte, tutt’altro. Il riconoscimento vero presuppone al fondo una impossibilità di conoscenza. Si tratta sempre di riconoscere la singolarità dell’altro, ciò che si sottrae ad ogni conoscenza; dunque ciò che pretende di sfuggire al controllo del potere, sia esso il potere sovrano di Basilio (del Basileus) o quello disciplinare della medicina (Manuel) e della chiesa (il prete). Ma nel Calderón non sembra esserci via d’uscita, il potere non solo pervade ogni aspetto della vita del soggetto, ma lo costituisce in quanto assoggettato, gli assegna una identità, una posizione nel mondo, per questo il potere «spingerà a obbedire senza essere obbediente», perché «il potere PUÒ essere buono, anzi DEVE essere buono».

Ed è per questo che Pasolini, intervenendo sul Calderón, evidenzia questo aspetto: «Il nostro primo rapporto, nascendo, è dunque un rapporto con il Potere, cioè con l’unico mondo possibile che la nascita ci assegna». La «bontà» del potere è dunque la sua positività (come Michel Foucault avrebbe scritto di lì a non molto), che significa non solo pervasività e controllo dei corpi (i luoghi della disciplina) e delle anime (le pratiche confessorie), ma in primis costituzione stessa della soggettività. È per questo che vivere significa sempre ri-nascere, sottrarsi alla prima nascita. È possibile rinascere per Rosaura? Emanciparsi da quei dispositivi di potere che le hanno assegnato un posto nel mondo? Sottrarsi allo sguardo di Lupe Regina e Basilio Re? Di fatto sembra impossibile, perché la linea che percorre Rosaura non le permette alcuna emancipazione, semmai regressione. Ripete infatti costantemente di voler tornare da dove viene («Voglio tornare là da dove sono venuta»).

Questa linea regressiva è il contrassegno di un amore che si imbatte sempre nella passione incestuosa: gli uomini che incontra e dice di amare, Sigismondo e Pablo, si rivelano essere suo padre e suo figlio. L’amore simbiotico non iscrive il soggetto nel mondo, lo porta a «regredire», ad uscire fuori da ogni limite fino alla follia. Non sembra dunque esserci spazio alcuno tra i dispositivi e i discorsi del potere da un lato e le precipitazioni nella follia, sia pur amorosa, dall’altro. Anzi, per molti versi il potere contempla nel suo esercizio un’unica fuga possibile: la follia (come ci ha fatto vedere Vincere di Bellocchio). Il discorso del potere è allo stesso tempo pratica sui corpi e parola dell’anima, ed è capace – e qui Pasolini ce lo fa vedere nel corpo vivo dei personaggi, nelle loro parole – non tanto di assegnare la morte (prerogativa della sovranità assoluta), quanto di entrare nella singolarità delle vite, riportare l’unicità all’ordine, sottrarre la cronaca alla storia.

Come dice Lupe Regina: «Dove regna l’ordine, regna l’unicità. E l’unicità è la più grande delle consolazioni: quella di vivere realmente la vita»; o come afferma Basilio: «Qui si vive la cronaca, che è però l’avventura fatta di nulla della vita». Il potere, giunto all’unicum, all’avventura fatta di nulla, è il potere che ha incorporato il suo fuori. Potere senza scarti, che culminerà in Salò nell’idea di inclusione nel potere di ciò che dovrebbe essere il suo fuori radicale, l’an-arché: «La sola vera anarchia è quella del potere». Questo potere senza fuori è restituito con forza sulla scena dal Calderón di Francesco Saponaro, nella tela di ragno che compone la scenografia; negli schermi che rimandano ad una extra-località interna alla scena stessa, dove figure e immagini suono «fuori» in tanto in quanto sono anche «dentro»; nella lotta disperata, folle, necessaria ma in fondo vana, che corpi e personaggi (incarnati intensamente da tutti gli attori) fanno per sottrarvisi o nelle pratiche normalizzanti che attuano per aderirvi.