Il primo novembre 2018, più di ventimila impiegati di Google e tech workers freelance marciavano per le strade di circa cinquanta città diverse, dalla Silicon Valley a Dublino, passando per San Francisco. Settimane prima, il New York Times aveva svelato che Andy Rubin, ideatore del sistema operativo Android acquistato da Google nel 2005, era stato liquidato con una somma di 90 milioni di dollari, per preservare l’integrità dell’azienda dopo un’accusa di molestie sessuali. 

Scoperto lo scandalo, migliaia di lavoratori del settore informatico di Google erano scesi in piazza, prendendo parte a uno degli scioperi più importanti del ventesimo secolo. Il bersaglio delle proteste non era solo l’insabbiamento delle accuse di molestia a cui il management di Google aveva contribuito, ma una protesta contro la cultura tossica del lavoro fatto di molestie quotidiane, machismo, razzismo e abusi di potere. Una dimostrazione senza precedenti capace di paralizzare per una giornata intera il sistema Google, una marea di lavoratori che parlavano la lingua universale dello sciopero e delle rivendicazioni sindacali

Il movimento oggi è cresciuto, rendendo chiara la frattura tra l’ideologia neoliberista californiana e le rivendicazioni del proletariato del settore digitale. L’industria del tech è infatti sempre stata ostile non solo nei confronti delle unioni sindacali, ma all’idea stessa di lavoro. Robert Noyce, fondatore di Intel e pioniere dell’immaginario della Silicon Valley, già nel 1963 dichiarava che per i nuovi modelli imprenditoriali era essenziale evitare negoziati con i sindacati, chiedendo ai lavoratori alti livelli di flessibilità. Lo spirito della Valley di oggi incarna alla perfezione il prototipo imprenditoriale, che ne diviene anzi il migliore slogan.

L’impresa viene smantellata e il rischio trasferito sull’imprenditore – spesso uomo, prototipo del breadwinner americano – senza orari d’ufficio, indipendente, creativo. E non importa che gli stipendi a sei cifre vadano a finire quasi esclusivamente nelle mani dei più avvantaggiati, lo spirito californiano offre a tutti la stessa illusione di potercela fare. Come riassume Silvio Lorusso, citando Richard Wright: “una volta Steinbeck ha detto che il socialismo non ha mai attecchito in America perché i poveri non si considerano proletariato sfruttato, ma milionari in temporanea difficoltà”. 

Non il socialismo, ma la mobilitazione del novembre 2018 fu per la Sinistra una vittoria fondamentale. Un’azione collettiva e internazionale che riuscì a dimostrare che il movimento sindacale dell’industria tecnologica esiste secondo le stesse logiche di ogni movimento, dimostrando anzi l’essenzialità della manodopera informatica da cui si estrae il plusvalore che tiene in piedi i giganti del digitale.

L’industria tech è infatti la punta di diamante del capitalismo statunitense e sfrutta l’Europa per ottenere sgravi fiscali. L’economista Michael Roberts scrive che dal 2010 la crescita ha rallentato ovunque in occidente, tranne che per i giganti della tecnologia. Il settore si conferma un’oasi di profitto in un sistema stagnante: Facebook, Amazon, Apple e Google non hanno smesso di guadagnare neanche durante la pandemia di COVID-19. Stando ai dati dei primi di maggio, Mark Zuckerberg ha guadagnato in questo trimestre circa un miliardo; il CEO di Google Larry Page 956 milioni; Bill Gates 931 milioni; Jeff Bezos 907 milioni.

Tra marzo e aprile 2020 Amazon  ha assunto 175000 impiegati per restare al passo con le vendite. Ma non tutte le compagnie assumono: se il rischio di alcuni impieghi è la delocalizzazione, altri scoprono durante la pandemia la loro non-essenzialità: Airbnb ha licenziato 1900 impiegati, circa il 25% dell’intero staff, mentre Uber ha annunciato un massiccio licenziamento di 3700 impiegati, pari al 14% del suo staff a livello globale.

Il settore tecnologico è la bolla dove l’American dream 2.0 continua a vivere e ad accogliere ancora molti lavoratori, entusiasti di lasciare il posto in ufficio o in cantiere per imparare un giorno a scrivere codici e fare soldi investendo in startup.

Ma la classe operaia del digitale vive vite diverse: parte del personale di Facebook, ad esempio, che si occupa di segnalare materiale inappropriato o spam, non vive esattamente in un sogno. È spesso personale sottopagato, composto in larga parte da popolazione nera e latina che non arriva alla fine del mese con il primo lavoro e che si è vista escludere dal bonus di mille dollari elargito da Zuckerberg per gli impiegati in smartworking. Perché i contractors non lavorano per Facebook, lavorano con Facebook.

A pochi giorni dallo sciopero del 2018, la filosofa italiana con base a New York Cinzia Arruzza aveva scritto del ruolo fondamentale delle donne nell’organizzazione e nella logistica dello sciopero, sottolineando inoltre un noto punto cieco delle teoria marxista: il concetto di classe è oggi un grande punto interrogativo. Il mondo non è più diviso in proletariato e borghesia, come predetto da Marx; oggi le strutture di classe sono più eterogenee, le differenze più sfumate.

I tech workers sono lavoratori altamente specializzati, spesso immigrati negli Stati Uniti per cercare lavoro, che costituiscono la “classe media della classe media” perché non si tratta solo di web developer dei campus californiani, ma della manodopera tecnica, spesso nera e latina che pur parlando la lingua del business non ne fa parte, dimenticata dalle unioni sindacali per via della natura del loro impiego subappaltato.

Ma a duecentodue anni dalla nascita di Marx, le sue idee riescono ancora a convincere. E se è vero che le contraddizioni della classe media descritta da Arruzza meglio rappresenta chi galleggia nella bolla liberale-liberista, il movimento di tech workers ha portato molti a identificarsi come classe lavoratrice. Spinti forse non da una nostalgia comunista, ma da una semplice presa di coscienza.

Per dirla con Stuart Hall, se razza e genere sono le modalità tramite cui si vive la classe, per alcuni tech workers è l’unico modo per vivere l’appartenenza a una classe contraddittoria.

Il movimento di tech workers continua a crescere e organizzarsi, e durante questa pandemia non sono mancate le occasioni per confrontarsi con i giganti della Valley, forzando la chiusura di alcuni stabilimenti Amazon.

Il 30 marzo uno sciopero è stato organizzato per le strade di San Francisco, il 24 aprile un’azione collettiva di tech workers partita dagli Stati Uniti ha raggiunto le sedi europee di Berlino e Londra. Se il movimento è ancora lontano da raggiungere una coscienza di classe, la mancanza di copertura di alcuni media certo non aiuta il processo di democratizzazione del posto di lavoro che molti stanno rivendicando.

Lo raccontano in una lettera alcuni dipendenti di Amazon, i cui scioperi hanno quasi ovunque lo stesso obiettivo: un cambiamento radicale non solo della cultura tossica che ha configurato il loro settore, ma il diritto a una quota di partecipazione nei consigli di amministrazione, per avere l’ultima parola su come certa tecnologia viene prodotta, se non produrla affatto quando non garantisce certi standard etici o ambientali, o se mette a rischio libertà collettive o individuali.

Anche se il rischio di ritorsioni da parte di questi colossi è concreto: lo scorso 14 aprile, due impiegate di Amazon a capo dell’unione sindacale del Minnesota sono state licenziate proprio per aver criticato pubblicamente la mancanza di sostenibilità ambientale dei magazzini di Bezos. Che ora attende una risposta del movimento.