«Black 90’s: A Turning Point in American Cinema» è il titolo della bella retrospettiva dedicata il maggio scorso dalla Brooklyn Academy of Music di New York alla new wave afroamericana che, a partire dagli anni novanta, ha riscritto i codici di rappresentazione della black experience, riproponendola come una vena essenziale del nuovo cinema indipendente (ma non solo) e dell’immaginario contemporaneo. Sulle orme dei percorsi fondanti di autori/padri come Melvin Van Peebles, Haile Gerima, Gordon Parks e Michael Schultz, energizzata dalla rabbia e dalla sensualità d’urto dell’hip hop, appoggiata dal potere nascente del Sundance Film Festival, quella new wave ha abbracciato oggetti e autori diversi, spaziando tra la commedia hip hop e il cinema queer, tra il gangster movie metropolitano e il kolossal storico di Sankofa, tra la grandezza poetica di Charles Burnett e le asprezze cubiste di Spike Lee, nell’incontro/scontro tra rap west e rap east, tra il bianco e nero di Zenaibu Irene Davis (Compensation) e la dorata antropologia gullah di Julie Dash (Daughters of the Dust); tra adattamento letterario (Rabbia ad Harlem, Il diavolo in blu) e cartoon (Bambini impossibili).

PENSATA con la generosità che caratterizza i programmi del curatore Ashley Clark, e seguita da una personale interamente dedicata a Marlon Riggs (uno degli sguardi più profondi e stimolanti sulle identità black e gay, e sulla loro difficile combinazione), la retro della BAM dava spazio anche a filmmaker di cui da allora non si è quasi più sentito parlare – Leslie Harris, Matthew Bright, Reggie Hudlin, Cheryl Dunye, a prodotti più curiosamente mainstream come Il principe delle donne e Donne – Waiting to Exhale, e al ruolo fondamentale della black TV.
A confronto della «fotografia» di una fioritura così ricca, complessa, variegata -ancor di più perché sbocciata nell’arco di una sola decade- la difficoltà di articolare una retrospettiva storica sul cinema black come quella proposta al festival di Locarno di quest’anno è ancora più apparente. «Black Light», curata da Greg de Cuir jr., si pone infatti come una rivisitazione del black cinema, dalle origini a oggi, che trascende le frontiere, la razza degli autori e i generi, in nome (nelle parole di Cuir) «di un panorama storico del cinema nero internazionale che mette in relazione registi di background differenti tra loro, che hanno realizzato lavori chiave sulla cultura e le genti di discendenza africana, con hanno identità e esperienze diverse in parti del mondo diverse, ma che sono profondamente connessi tra di loro».

IL PANORAMA storico di Black Light comprende quindi Oscar Michaeux (Within Our Gates, 1919), Spencer Williams (The Blood of Jesus, 1941) ma anche Dainah La Metisse di Jean Gremillon (1931) e Orfeo Negro di Marcel Camus (1959); frulla Shirley Clarke (The Cool World), Pier Paolo Pasolini (Appunti per un’orestiade africana), Samuel Fuller (Cane bianco), Spike Lee (Fa la cosa giusta e Lola darling), Jack Hill (Coffy), Tarantino (Jackie Brown) e Jim Jarmusch (Ghost Dog- Il codice del samurai) insieme a Jules Dassin e William Greaves.
Purtroppo, l’effetto è meno quello di una rilettura ardita, provocatoria, intesa a suggerire affinità e dissonanze inedite, e a stimolare un percorso critico/estetico alternativo, che quello di una selezione di greatest hits del world cinema – non è Africa, non èAmerica e certo non è l’esperienza afroamericana – accomunati da una manciata di temi in comune e da un vago discorso sulla rappresentazione della blackness. Piuttosto che alle retrospettive approfonditissime e storicamente ricercate a cui Locarno ci ha abituati sotto le direzioni di Oliver Pere e Carlo Chatrian, «Black Light» sembra un salto indietro agli anni di «Cinema e giornalismo» o «Cinema e Jazz» retrospettive dallo spirito più divulgativo, un po’ confezionate per la stampa. Specialmente in un momento di grande riscoperta delle politiche delle identità -e quindi di grande attenzione al black cinema (nuovo e non -il cofanetto Kino sul cinema afroamericano delle origini e ottimo), uno dei problemi principali del programma di Cuir è -nonostante l’ambizione del concetto – la disarmante ovvietà dei titoli. Che, in un serie come questa, Spike Lee sia rappresentato da due dei suoi film più scontati (piuttosto che da quelli poco visti in Europa e che lavorano proprio sulla blackness dall’interno -come il geniale Bamboozled -recentemente uscito anche in un’edizione Criterion; Aule turbolente o Crooklyn) è sconcertante. Come il fatto che la presenza di Burnett sia limitata a un film solo e escluda le sue opere più recenti; che Michael Schultz non sia rappresentato del tutto, nemmeno nelle sue miliari collaborazioni con Richard Pryor (è possibile una cosa sulla blackness senza di lui?), come Car Wash e Greased Lightning; che manchi Ossie Davis regista o che Marlon Riggs sia presente solo con il suo film più prevedibile, Tongues Untied.

E PERCHÉ non accennare nemmeno a Kevin Jerome Everson, Donald Glover o Terence Nance -e a quello che stanno facendo adesso? Una retrospettiva è fatta di scelte e -per principio-non pare bello sottolineare quello che manca invece di quello che c’è. In questo caso, però, è impossibile fare il contrario. «Black Light» è un programma pretenzioso e timido. Gli manca la curiosità e la voglia di rischiare/giocare necessarie a farci veramente riscoprire una storia così complessa e tormentata.