Bizzarro l’ultimo editoriale di Galli della Loggia sul Corriere della Sera. Esprime un’insofferenza nei confronti della nostra Costituzione che offusca il rigore delle argomentazioni. L’autorevole editorialista non sopporta gli elogi che vengono rivolti alla Costituzione dalla nostra classe politica e desidera porre un argine alla retorica della memoria. Fin qui in fondo è solo un’opinione, alla quale si potrebbe opporre una diversa visione, sostenuta dai fatti più che dalle parole, la quale ricorda come questa classe politica, nella sua maggioranza, da trent’anni opera non per incensare, bensì per delegittimare il testo e si esercita, con continuità e costanza, a scardinarne l’impianto, passando da un fallimento ad un altro ed esprimendo una cultura costituzionale di pessima qualità .

Del resto due bicamerali fallite e due grandi riforme approvate dal parlamento e rifiutate dalla maggioranza del corpo elettorale sono lì a dimostrarlo. Ma l’avversione nei confronti di chi milita dalla parte della Costituzione porta Galli della Loggia ad affermazioni non controllate: «Credo – egli scrive – che in tutta Europa non esiste una Carta costituzionale fatta oggetto di un altrettanto inarrestabile fiume di parole elogiative». Eppure Galli della Loggia sa bene che l’elogio della Costituzione è in Europa un tratto fondamentale e costitutivo delle identità nazionali. Dagli anni Ottanta, soprattutto in Germania, sulla scia dell’insegnamento di Jürgen Habermas, si è affermato un vero e proprio «patriottismo costituzionale».

MA NON È NEPPURE SOLO una questione nazionale, tant’è che persino l’assai debole identità europea si cerca faticosamente di trovarla in un una retorica elogiativa di un modello costituzionale comune ai paesi membri, andando a scomodare le fragili «tradizioni costituzionali comuni». In realtà non solo in Europa, ma anche al di là dell’oceano, la retorica dei «padri costituenti» è un argomento di coesione nazionale indiscussa e indiscutibile. Insomma, come sa bene chiunque abbia una qualche frequentazione con l’estero (e certamente Galli della Loggia è tra questi), ciò che risulta incomprensibile agli occhi degli stranieri è come sia possibile che nel nostro Paese la classe politica continui ad addossare alla Costituzione i propri vizi e le sue incapacità nel disegnare un futuro, «non riuscendo – la nostra classe dirigente – ad immaginarsi depositaria di un qualunque destino collettivo né investita di una qualunque prospettiva nazionale».

Queste ultime sono parolescritte da Galli della Loggia, condivisibili, se non fosse che egli ritiene che questa debolezza storica della classe dirigente italiana si ponga a fondamento della necessità di richiamarsi al passato, celebrare una sudditanza, guardando «all’indietro, solo all’indietro: cioè per l’appunto alla Costituzione».

SOLO UNA ASSOLUTA SFIDUCIA nei confronti della nostra costituzione – una retorica anticostituzionale – può far pensare che essa sia rivolta solo al passato. Tutte le costituzioni, in realtà, sono «strabiche» (lo ha rilevato Pietro Calamandrei, un autore che non ha certo ecceduto nell’elogio costituzionale, avendone criticati non pochi aspetti): un occhio rivolto all’indietro per salvaguardare le conquiste di civiltà di un popolo, l’altro rivolto al futuro per legittimare il cambiamento promesso. E, in effetti, basta guardare – con animo pacato e non prevenuto – alla nostra costituzione per rilevare che essa ha certamente chiuso alcuni conti con il passato (non solo lo stato fascista, anche lo stato liberale) ed ha assicurato nuovi diritti (quelli sociali) e nuove libertà politiche (dal suffragio universale all’organizzazione dei poteri); ma ha anche indicato la rotta per il cambiamento, definita dall’intero articolato costituzionale e che trova nel principio d’eguaglianza sostanziale il suo principale valore politico, prima ancora che giuridico.

È DI QUESTO CHE CREDO dovremmo discutere. Se certo dovessimo ritenere superato il principio d’eguaglianza come leva del cambiamento, sostituendo magari a questo il principio della libertà dei singoli, ponendo la libertà come un assoluto costituzionale, e allora sì che il testo della nostra Costituzione non avrebbe più nulla da dirci. In questo caso, però, nessuno dovrebbe gioire, poiché – come sanno anche i liberali più avveduti – la libertà di tutti su tutto non è altro che il ritorno allo stato di natura: ce lo ha spiegato in termini definitivi Thomas Hobbes. E Hans Kelsen (altro autore non sospetto di retorica costituzionale in caso di purezza normativa) ha chiarito che la libertà assoluta è «contraria alla democrazia». Credo proprio che nessuno oggi si voglia spingere ad affermare che la democrazia è alle nostre spalle, rappresentando solo un «sepolcro imbiancato».

Ma torniamo all’editoriale del Corriere. Per dimostrare la vuota retorica dei laudatori della Costituzione si usano due argomenti, entrambi forzati. Si rileva il dato che la Carta è stata, in realtà, cambiata (scrive Galli della Loggia: 16 modifiche per un totale di oltre venti articoli, in realtà il numero degli articoli che hanno subito modifiche è molto più elevato). Ciò dimostrerebbe che la nostra Costituzione non è perfetta. L’idea, però, che il valore di una Costituzione sia espresso dalla sua intangibilità assoluta è assai vecchia e – questa sì – manifestazione di una vuota retorica. Nel preambolo dello Statuto albertino c’era scritto che esso è una «legge fondamentale, perpetua e irrevocabile».

LA CULTURA COSTITUZIONALE contemporanea, invece, sa bene che per salvaguardare il valore delle Costituzioni è necessario svolgere una costante opera di «manutenzione costituzionale». Tant’è che ha previsto al suo interno i meccanismi del proprio mutamento (il famigerato articolo 138 della nostra costituzione). Il problema reale del nostro paese è che in assenza di una cultura in grado di attuare e manutenere il testo della Costituzione si sono succeduti tentativi di revisioni finalizzata a stravolgere la logica del sistema.
IL SECONDO ARGOMENTO appare anch’esso non appropriato, anche se si basa su una credenza diffusa, ma non per questo meno erronea. I laudatori si limiterebbero ad incensare la prima parte, i «massimi principi». Troppo facile e forviante, sembra pensare Galli della Loggia. Così si vuole sfuggire la discussione sulla seconda parte della costituzione, quella che definisce l’assetto organizzativo e che è la causa di ogni male.
Francamente stupisce l’affermazione che ci sia «silenzio» su questo. A me sembra non si parli di altro, e il revisionismo disinvolto di questi anni ha espresso il peggio di sé proprio su questo terreno. Ma il punto è un altro.

Così com’è scorretto isolare la prima parte dalla seconda è vero anche l’inverso: aver voluto mettere le mani sull’intera seconda parte della Costituzione in base all’illusione che la parte «indiscutibile» dei diritti rimanesse inalterata è stata una falsità. La riforma dell’assetto e dei poteri degli enti territoriali (Titolo V) e quella relativa all’introduzione del principio dell’equilibrio finanziario (fiscal compact) hanno inciso negativamente sulla tutela reale dei diritti, ed è tra le cause del fallimento di entrambe le riforme costituzionali.

UN’ULTIMA ANNOTAZIONE. Galli della Loggia prende spunto per la sua requisitoria contro i laudator temporis acti da una iniziativa della presidenza del consiglio che ha organizzato, assieme all’editore Laterza, in occasione del settantesimo anniversario della entrata in vigore della Costituzione, un «viaggio» attraverso dodici città italiane, ciascuna destinata ad essere sede di una discussione su uno dei «principi fondamentali» (articoli 1-12). Egli rileva che questi confronti si sarebbero svolti in «assenza d’interesse da parte del pubblico unita ad una piattezza celebrativa». Non so a quale iniziativa ha partecipato Galli della Loggia. Io ho discusso a Reggio Calabria del principio d’eguaglianza con un pubblico che ha partecipato con passione, convinti che quanto scritto in Costituzione (l’eguaglianza nel nostro caso) sia un principio non tanto da celebrare, quanto da realizzare. Percezioni opposte e diversi punti di vista.