Chi non ha visto, almeno una volta, la foto scattata da Robert Capa al pastore siciliano che indica la strada al sodato americano, dopo lo sbarco del 1943? O la foto del bambino del ghetto di Varsavia con le mani alzate, minacciato dal mitra di una SS? Si tratta di immagini rese celebri da periodici, manuali e antologie di ogni tempo, entrate nel nostro immaginario grazie alla loro capacità di cogliere aspetti essenziali del passato. A volte la loro divulgazione si accompagna a inesattezze «filologiche», senza che questo comprometta la loro forza evocativa: come nel caso di uno scatto di Margaret Bourke-White, diffuso da «Life» nel 1937 per testimoniare lo straripamento del fiume Ohio. La foto, mostrando il contrasto fra la celebrazione pubblicitaria dell’American way of life e la fila di persone in attesa di ricevere aiuti, è passata alla storia, nonostante la sua vera origine, come testimonianza della crisi del ’29.

Visioni del mondo

Da quando è stata inventata, nel 1839, la fotografia non ha mai cessato di interagire con la vita, individuale e collettiva. Accanto al cinema, sua diretta filiazione, la fotografia è senz’altro una delle novità tecnologiche caratteristiche dell’età contemporanea; insieme a poche altre, come il telefono o l’automobile, essa ha modificato radicalmente il nostro rapporto con lo spazio, il tempo e la memoria. Se il telefono e l’automobile hanno reso più piccolo il mondo, la fotografia ha dato a tutti, almeno dopo la sua diffusione di massa, la possibilità di «osservare» il passato, nonché di vedersi crescere e invecchiare.

Insieme alle tradizionali carte d’archivio, le fotografie dovrebbero sempre entrare nella cassetta degli attrezzi del bravo storico. Non soltanto in quanto esse riflettono, sia pure in modo mediato, la realtà del passato, ma anche perché poche cose come le immagini, specie quelle fotografiche, contribuiscono a definire visioni del mondo, comportamenti, stati d’animo, stili di vita. La fotografia, in altri termini, non è solo un prodotto della storia: ne è anche artefice.

La polivalenza dello strumento fotografico emerge chiaramente nell’ultimo libro dello storico Gabriele D’Autilia, il quale si cimenta in una ricostruzione a tutto campo dell’immagine fotografica in Italia, dalle sue origini a oggi (Storia della fotografia in Italia dal 1839 a oggi, Einaudi, pp. 432, euro 32). Ne risulta uno studio ampio e innovativo, concentrato soprattutto sulla produzione, la diffusione e la ricezione della fotografia. O meglio, delle «fotografie», ossia delle immagini – artistiche, amatoriali, commerciali, giornalistiche o propagandistiche – che hanno contribuito a definire le scelte e il «carattere» degli italiani. Sullo sfondo, la storia d’Italia dal Risorgimento a oggi, non già in funzione meramente «scenografica», ma come parte integrante della ricostruzione storiografica.

Il lavoro di D’Autilia è consapevolmente ambizioso: include nel proprio campo di osservazione oggetti ben difficilmente misurabili (la ricezione delle fotografie e il loro impatto sulle persone), e affronta questioni teoriche non da poco, come il rapporto fra fotografia e realtà. Una realtà che viene sempre, come afferma l’autore, messa «tra virgolette» dai fotografi, ossia interpretata e colta a partire da una certa prospettiva. Postmodernismo fuori moda? No, semmai un ragionevole antidoto al realismo ingenuo: come ha recentemente suggerito Walter Siti, a proposito di letteratura, il vero realismo non è il rispecchiamento – peraltro impossibile – della realtà, ma la capacità di coglierne gli aspetti meno banali e superficiali.

Tutte le fotografie prodotte e circolate in Italia hanno costituito a partire dalla metà dell’Ottocento «una pioggia sottile che ha iniziato a inumidire via via gli italiani fino a trasformarsi nella seconda metà del Novecento in acquazzone». È questa la suggestiva metafora con la quale D’Autilia sintetizza il ruolo sempre maggiore avuto dalle fotografie nella storia d’Italia, a partire dal Risorgimento, uno tra i primi eventi ad essere catturato e al contempo influenzato dalla fotografia.

Un’arte popolare

Nata come strumento egemonico della borghesia, della sua affermazione come classe, solo con il tempo la fotografia si è «democratizzata». Per tutto l’Ottocento essa ha trascurato la rappresentazione delle classi popolari, di quei lavoratori (in prevalenza contadini) di cui anche le politiche di governo e le statistiche sembravano disinteressarsi. Nel corso del Novecento, seguendo un percorso non certo lineare, la fotografia è divenuta uno strumento sempre più diffuso, prodotto e fruito a livello di massa (una vera folk art, secondo Peppino Ortoleva). Oggi, nell’era di Facebook e degli smartphone, l’utilizzo delle immagini fotografiche si è fatto persino iperbolico.

La diffusione dell’immagine fotografica è passata, nel corso del ventennio fascista, attraverso un uso propagandistico pervasivo: Mussolini, il personaggio pubblico più fotografato nella storia d’Italia, è stato anche il primo leader politico a fare un uso sistematico della propria immagine. Più tardi, su un terreno simile, sarebbe stato Berlusconi a contendergli il primato, avvalendosi anche della tv commerciale. Quest’ultima, mutuando dal linguaggio iconografico dei rotocalchi e dei fotoromanzi del secondo dopoguerra molte forme comunicative, avrebbe contribuito a consolidare quella mutazione antropologica degli italiani su cui, d’accordo o no con Pasolini, dobbiamo interrogarci ancora oggi.