Parlare di biodiversità oggi è molto comune. Ma affrontare questo tema affascinante con una visione sistemica è meno diffuso e più complesso. I primi documenti ufficiali che parlano di conservazione della biodiversità risalgono alla Convenzione di Rio de Janeiro (1992). Da allora è un susseguirsi di accordi, trattati, protocolli, che coinvolgono istituzioni, associazioni, enti di ricerca pubblici e privati. Banche del seme, campi catalogo, collezioni in campo o nelle parcelle sperimentali: la conservazione assume nel tempo un sostanziale significato genetico. Chi conserva fissa la genetica, rallenta la variabilità e prova a mantenere il tutto inalterato negli anni.

In realtà, l’idea di conservazione con una visione sistemica è altra cosa. La genetica gioca un ruolo mai predominante rispetto a tanti altri fattori. Innanzi tutto non si può parlare di conservazione dell’agrobiodiversità senza mettere al centro un allevatore o un agricoltore. E poi è necessario che ci sia anche chi consuma questa biodiversità, altrimenti non ci sarà mai una vera salvaguardia, che per essere efficace deve basarsi su un’economia reale.

Dietro questo ragionamento, poi, c’è la visione ancora più ampia di Slow Food. Dire biodiversità senza parlare di ambiente e conservazione delle risorse è impossibile. Dimenticare che la biodiversità è uno strumento di mitigazione della crisi climatica è sintomo di cecità. La biodiversità, in questa visione, diventa un indispensabile servizio ecosistemico in grado di garantire la conservazione del suolo, dell’acqua, della fertilità, della presenza di insetti utili. Questi concetti devono trasformarsi in abitudini quotidiane del consumatore, che gioca così un ruolo politico fondamentale a favore delle produzioni di prossimità, coltivate in modo sostenibile, adottando modelli riconducibili all’agroecologia.

Tutti temi comunicati dalla Commissione europea che però non possono arrivare sulla tavola dei consumatori come semplici e ambiziose strategie. I principi della Farm to Fork e della Biodiversità 2030 devono diventare parte della nostra azione: solo così riusciremo a costruire piccoli frammenti su cui consolidare le fondamenta di un mondo migliore.

L’agricoltura industriale e intensiva ha fatto il suo tempo, continuerà a dominare solo se continuerà a essere sostenuta da una miope politica agricola dell’Unione che non vuol davvero comprendere che siamo prossimi al punto di non ritorno. Sentiamo le grandi aziende dell’alimentare usare parole come agroecologia, biodiversità, produzioni locali, senza tuttavia che i prodotti abbiano molto a che fare con questi termini. Cambiare paradigma significa fermarsi e imprimere scelte diverse. Non si può cambiare paradigma riadattando i modelli industriali.

I Presìdi Slow Food, in questo percorso, sono un modello perfetto di conservazione della biodiversità con visione sistemica. Si parla di genetica, di tradizioni, di saperi, di culture, di comunità, di sostenibilità, di agroecologia, il tutto mettendo al centro chi produce e chi vive il suolo e l’ambiente.

Non sono un esercizio di stile, sono esempi di futuro e di rafforzamento di una diversa visione di politica agricola che non fa perdere il contatto tra i piedi e la terra lasciando che il prodotto rimanga legato a un territorio non per slogan di marketing ma per solida cultura.