«Non vi è, nell’ambito della biografia, commento né critica». La sentenza, che nel saggio-capolavoro sulle Affinità elettive, Walter Benjamin oppose al Goethe di Friedrich Gundolf – cioè al monumento dedicato all’autore del Faust dal circolo di Stefan George – si erge ancora come un monito potente di fronte a ogni tentativo di stringere insieme il piano della vita e quello dell’opera, ovvero di far emergere il «tenore di verità» di quest’ultima – avrebbe detto Benjamin – dal piano reale della vicenda biografica.

E il monito non può non essere ricordato oggi, quando appare in libreria il volume di Howard Eiland e Michael W. Jennings intitolato appunto Walter Benjamin Una biografia critica (Einaudi «Opere», traduzione di Alvise La Rocca, pp. XXX + 695, euro 90,00). Ammesso che la versione non tradisca l’originale (A Critical Life), questo lavoro ricco e imponente parrebbe dunque immancabilmente dirigersi contro quel principio «inviolabile» e segnato come uno scoglio insidioso nella mappa concettuale benjaminiana. Ma è davvero così? No, secondo la voce autorevole di Peter Fenves (autore tra l’altro di The Messianic Reduction, probabilmente la ricerca più documentata e originale sul giovane Benjamin), che ha prestato la propria penna per un «blurb» dell’edizione americana: questo libro «non-tendious», egli assicura, assurgerà presto al ruolo di «standard reference work» per tutti coloro che siano interessati alla difficile e intricata vita di Benjamin. Della stessa opinione è d’altro canto il recensore del Wall Street Journal. In un articolo che si apre con la domanda: Quale credito potrebbe riscuotere come critico della modernità un tipo incapace, a quarant’anni, di farsi una tazza di caffé?, questi osserva che il termine «definitivo» calzerebbe a pennello per il libro in questione, se non fosse vecchio e abusato. L’opera dei due professori statunitensi, profetizza infine la «quarta» italiana, è «destinata a diventare la biografia di riferimento di questo outsider del pensiero» e «costituisce una fonte di inesauribile interesse per gli studiosi dell’intellettuale così come per il pubblico in generale dei lettori». Definitiva, o anche standard, allora, vorrebbe essere almeno questa operazione editoriale, che richiama gli specialisti e i non specialisti, raduna ricchi e poveri – per dividerli però drasticamente, presentandosi nella sua veste prestigiosa e destinata al pubblico d’élite mentre si concede come ebook al prezzo popolare di euro 9,99.

Una simile presentazione espone però fatalmente il libro all’arduo confronto con i grandi saggi (anche italiani, di Agamben, di Jesi, di Solmi, di Carchia o di Cases) e soprattutto con i volumi di Gershom Scholem che negli anni si sono giustamente imposti quale principale viatico al pensiero benjaminiano. Col suo contegno insieme ispirato e rigoroso, Scholem aveva evitato entrambe le parole, «critica» e «biografia», e aveva per la prima volta restituito nel dettaglio le vicende reali attenendosi alla «storia di un’amicizia», e riservando d’altro canto all’interpretazione del testo esoterico Agesilaus Santander l’esposizione del tenore di verità. Lo stile e il pensiero del grande studioso della mistica ebraica sono i più affini a quelli benjaminiani. Ma rivolgiamoci a questa nuova e impegnativa opera: chi è stato, dal punto di vista della Critical Life, Walter Benjamin? «Più che un rigido ideologo» (non era Zdanov, in effetti) «egli rimase sempre un visionario ribelle». Forse non proprio adatta al più profondo filosofo politico del ventesimo secolo, questa definizione viene così giustificata: «Potremmo dire che per lo stesso Benjamin – un “cane sciolto di sinistra”, un anticonformista – il problema politico si riduceva a un insieme di contraddizioni riflesse [embodied] sul piano personale e sociale.

Le esigenze conflittuali della politica e della teologia, del nichilismo e del messianesimo non potevano essere né composte né eluse. La sua vita – sempre al bivio, come disse lui stesso – fu un’incessante oscillazione tra questi incommensurabili, una scommessa sempre rinnovata». Lo stesso Benjamin rivendicò una volta (in una celebre lettera a Scholem del 1934, e a proposito del proprio «comunismo») di non aver mai tentato «di dare espressione a quella totalità mobile e contraddittoria che è costituita dalle mie convinzioni nella loro molteplicità». Ora, proprio questa posizione, che dovrebbe impedire ogni facile accesso, viene usata come un passepartout: la contraddittorietà diviene per Eiland e Jennings il varco o il comune denominatore attraverso il quale vita e opera possono confluire, spiegarsi a vicenda, e persino coincidere. Così, in nome della polarità perennemente irrisolta, hanno facile corso alcune considerazioni che richiederebbero forse una maggiore cautela, o opinioni anche bizzarre, come quella sul finale di Per la critica della violenza, che mostrerebbe un Benjamin non «ancora in grado di conciliare pienamente tra di loro le sue idee politiche e teologiche». Quando poi ci si sposta – così accade, poiché la parafrasi o il compendio dei testi deve qui alternarsi alla restituzione dei fatti – dal piano teorico a quello della vita vera e propria, lo schema dell’oscillazione aderisce facilmente al ritratto psicologico o fisiognomico. Ci si fa incontro allora un giovane dotato di una testa grande e geniale montata però su un corpo rigido e impacciato (una «figura fisicamente insignificante e spesso goffa»), la cui intelligenza metafisica convive con un carattere cinico e «a tratti volgare» (sic); quindi un uomo quasi privo di sensualità che però si dibatte in una serie di erotic entanglements che ne condizionano (è il caso, ovviamente, di Asja Lacis) l’ispirazione politica, per riflettersi poi in ulteriori grovigli o conflitti teorici.
Gravando su simili basi, il ricco edificio manifesta allora dei cedimenti improvvisi, e specialmente al giudizio morale, come accade in un passo sui rapporti con l’intellighenzia parigina nel quale Benjamin viene addirittura dipinto come «un povero, timido arrivista». Sarà questa magari una defaillance, in un lavoro altrimenti apprezzabile (più nella prima parte e meno nell’ultima, che non tiene conto della ricostruzione del Baudelaire), anche perché riunisce e ordina i moltissimi dettagli disseminati nei sei volumi del carteggio, ma è anche il segno di una debolezza strutturale. La teoria della contraddizione o della scommessa sempre aperta tra le esigenze del nichilismo e del messianesimo (che in realtà non sono affatto conflittuali ma storicamente e logicamente coerenti) ha infatti bisogno di continue pezze d’appoggio, e possibilmente molto concrete, tratte cioè dalla vita vissuta. Non sempre tuttavia le fonti principali le concedono, né le ricerche più recenti. Allora si cerca un appiglio facendo i conti in tasca a Benjamin per dimostrare che aveva bisogno di più soldi di quanti dovevano servire al mantenimento di un profugo, e che dunque chiedeva il sostegno di amici e parenti (anche alla sorella povera e malata) per coltivare in realtà la sua «incallita frequentazione» del demi-monde, sperperando soldi «per il gioco e per le donne». Yes, his gambling was an addiction, as we say today, commentano i biografi, ma «proprio la volgarità di questi aspetti della vita rappresenta forse la spia più rivelatrice della disperazione». Deinde, ego te absolvo a peccatis tuis, si potrebbe chiosare – e però: in nomine philosophiae! Per comprendere infatti «fino in fondo» il presunto contegno dell’esule – sul quale per es. il recente e documentato I Benjamin. Una famiglia tedesca di Uwe-Karsten Heye (Sellerio, pp. 333, euro 18,00) getta tutt’altra luce – «bisogna leggere, nei Passages, la descrizione dell’esperienza inebriata del tempo e dello spazio che prova il giocatore»; e considerare che per Benjamin «il pensiero stesso è una scommessa esistenziale che nasce dalla consapevolezza che la verità è infondata e inintenzionale e l’esistenza una “condizione priva di fondamento”».

Grazie a questa vaga nozione di scommessa (sia ever-renewed o existential wager, un contenuto «di verità» dovrebbe così corrispondere al piano dei fatti. Ma è invece l’idea stessa della «verità» (e la più genuinamente benjaminiana, come «morte dell’intenzione») che viene ridotta e sacrificata alla psicologia del gambling addict. E una simile illusione critica (come il debole commento del testo sul gioco d’azzardo) rischia di minare e rendere vacillante l’imponente biografia.