Okja, il nuovo film di Bong Joon-ho (The Host, Snowpiercer), è stato «il caso» dello scorso Festival di Cannes, dove era in concorso, e dove la sua presenza, ben prima della proiezione, ha fatto gridare allo scandalo in molti accendendo violente polemiche – soprattutto tra gli esercenti d’oltralpe – che hanno trovato subito una sponda nel presidente della giuria, Pedro Almodovar, con tanto di promessa, sua, che a quel film non avrebbe mai dato un premio – così è accaduto ed è stato un vero peccato perché nella selezione di quest’anno era senz’altro uno dei più belli.

La ragione di tanta foga va, appunto, al di là del film e si deve al suo marchio produttivo. Netflix, che per Okja come per altri film prodotti, non prevede l’uscita in sala (a parte in questo caso la Gran Bretagna, la Corea del Sud e pochi altri) ma il passaggio diretto sulla piattaforma – si può ora vedere anche in Italia. Il che è ovviamente assurdo, e anche se si volesse criticare questa cosa perché penalizzarlo? Nel film peraltro (ne ha scritto su queste pagine da Cannes Giona A.Nazzaro) il regista, tra i grandi autori contemporanei, rivendica in pieno la sua libertà creativa, di scelte narrative, visuali, con sontuosi piani sequenza, effetti speciali: una contaminazione di generi che vira il fiabesco all’horror del capitalismo componendo un’allegoria sovversiva del nostro tempo e del nostro mondo.

Okja, il supermaiale che somiglia a un ippopotamo gigante è uno dei prototipi di animali geneticamente modificati usciti dai laboratori della Mirando – ogni assonanza con la Monsanto è voluta. L’hanno affidata a una ragazzina, Mija, che vive col nonno contadino tra le montagne della Corea del Sud; le due creature, la piccola umana e l’animale, sono cresciute in simbiosi unite da una sorellanza meravigliosa, tra loro basta uno sguardo, un sussurro per capirsi. Un giorno però la società guidata dalla nevrotica Lucy Mirando – sublime Tilda Swinton – ossessionata dall’immagine mediatica, la sua, quella dell’azienda da cui deve cancellare con una nuova forma di capitalismo bio e patinato l’impronta conservatrice e tradizionale della sorella gemella Nancy (un’altra declinazione del capitale, ricorda la Thatcher, meno social e forse più subdola) – manda il suo uomo-immagine, un medico-giullare della tv smanioso di fama e di successo (Jake Gyllenaal), a riprendere Okja.

 

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La vogliono premiare, dice, in realtà lei come tutti gli altri è destinata a essere carne da macello in mattatoi che somigliano ai lager, in cui gli animali vengono sottoposti a ogni sorta di tortura, stupro, umiliazione, prima di essere uccisi per produrre carne di buon sapore in elevata quantità, pronta per tutti (senza nemmeno costrizioni culturali e religiose) con elevati guadagni certi.

Mija però non ci sta e inizia la sua lotta personale per salvare l’amica animale; un viaggio verso la metropoli che è per entrambe un romanzo di formazione, nel corso del quale incrocia un gruppo animalista che combatte l’uso di Ogm, vegani fino allo sfinimento e pronti a finire in prigione per denunciare le atrocità della Mirando Corporation.
Bong Joon-ho si conferma un narratore della contemporaneità, autore di un cinema che è insieme spettacolare e di grande consapevolezza politica. Quell’animale che somiglia a un cartoon (potrebbe essere la sorella coreana del Totoro di Miyazaki), col corpo grosso e «mostruoso» che fa paura – ma non di più dei temibili manager della Mirando – è un «effetto speciale» che Bong carezza restituendone la fisicità di carne e di sangue, le lacrime di una sofferenza consapevole verso la violenza e la morte. E prima di un grido «vegano» o di denuncia contro l’uso degli Ogm per sfruttamento intensivo con tutto ciò che comporta, ci dice con lucidità dell’impossibile rivoluzione e della necessità di reiventarne i modi. Senza fare spoiler alla fine il capitale sarà fermato solo parlando la stessa lingua (e il romanzo di formazione di Okja e Mija finisce con la perdita dell’innocenza); non è un cambiamento, è solo una soluzione individuale, indietro rimane chi continua a soffrire, e insieme la possibilità di inventare finalmente un’utopia e la sua lotta collettiva.