La Germania è, nel Vecchio continente, soggetto e oggetto di numerosi pregiudizi. I paesi dell’Europa meridionale non godono, presso l’opinione pubblica tedesca, di gran buona fama: la «creatività» che viene loro riconosciuta si accompagna sempre a un certo sentore di truffa. La Bundesrepublik, a sua volta, imputata di una intramontabile e altera «volontà di potenza» è oggetto di una alternanza tra ammirata invidia e istintiva avversione. Un buon antidoto a questi diffusi giudizi sommari possiamo trovarlo in una assai chiara ricostruzione della storia politico-economica tedesca del dopoguerra a firma di Massimo D’Angelillo (La Germania e la crisi europea, ombre corte, pp.222, euro 18). Ricostruzione che mira però a dare risposta a una domanda decisiva: il ruolo che Berlino svolge oggi in Europa favorisce la stabilità, la crescita e l’integrazione dell’Unione o agisce, invece, in senso del tutto contrario? L’autore propende nettamente per la seconda ipotesi. E non è l’unico a rievocare l’inquietante spettro della politica deflazionista e recessiva condotta dal cancelliere Bruening, alla vigilia della presa del potere da parte di Hitler. Qualcosa di più di una vaga suggestione in una Europa attraversata sempre più minacciosamente da pulsioni nazionaliste, autoritarie e xenofobe e che continua ad avere nella Germania il suo centro di gravità.

La storia tedesca dopo la fine della seconda guerra mondiale, quella con capitale Bonn, prima, e quella con capitale Berlino, dopo, è stata una storia di indubbio successo. Dalla ricostruzione sotto il segno della cosiddetta «economia sociale di mercato» al riformismo e alla Ostpolitik degli anni di Willy Brandt, dal Modell Deutschland di Helmut Schmidt alla riunificazione della Germania e all’espansione verso est sotto il lungo cancellierato di Helmut Kohl, dalla dottrina della competitività ad ogni costo di Gerhard Schroeder con la sua «Agenda 2010» alla stabilità opulenta del governo di Angela Merkel, «utilizzatore finale» del corso liberista adottato dalla socialdemocrazia.

Questo successo poggiava su una combinazione, certamente non usuale, tra la forza della moneta (il marco) e il grande volume dell’export, assicurato dalla qualità dei prodotti made in Germany, da alta produttività e stabilità sociale e, naturalmente, dalla crescente domanda di tecnologia sul mercato mondiale. La moneta forte rendeva obbligatoria l’innovazione produttiva. Beninteso questi successi non sono stati a costo zero per i lavoratori tedeschi in termini di disoccupazione, (alla fine del cancellierato di Schmidt) o di restrizione del welfare e diffusione del lavoro sottopagato durante il governo di Schroeder.

Dipendenze reciproche

La Spd ha ricorrentemente prestato la sua opera per preservare le «riforme» liberiste da un’eccessiva conflittualità sociale. Fatto sta che il cosiddetto «keynesismo dell’export» non poteva garantire in permanenza i margini necessari a una equilibrata crescita sociale. Dove l’export la fa da padrone il benessere di molti è sempre a repentaglio.
Nondimeno la «locomotiva» germanica, quando girava a pieno ritmo, aveva comportato visibili vantaggi anche per le economie più deboli del Vecchio continente, soprattutto fino a quando queste avevano potuto sostenere le proprie esportazioni e subforniture con la svalutazione della moneta nazionale e poi con il gioco al ribasso sul costo del lavoro. Il che non ne avrebbe comunque mutato la condizione periferica. L’Europa sarebbe rimasta dipendente dalle scelte di Berlino sia nei momenti di massima forza dell’economia tedesca, sia in quelli di maggiore debolezza. Dipendenza, beninteso, reciproca visto che il 57 per cento delle esportazioni tedesche è assorbito dai paesi europei e il 40 per cento da quelli dell’eurozona. Circostanza che sconsiglierebbe, se ci trovassimo nell’ambito di un pensiero razionale (ma così non è), di strangolare buona parte del continente imponendogli politiche di austerità.

Quanto al valore di modello dell’economia germanica, si tratta di una fantasticheria pedagogica, pari a quella dell’«alunno modello» che esegue a puntino i «compiti a casa», senza fondamento alcuno nella storia reale. Pochi propositi sono campati in aria come l’aspirazione a «fare come la Germania», che si tratti di singoli paesi, o, a maggior ragione, della politica economica europea nel suo insieme. Solo la Germania può «fare come la Germania» per numerose ragioni che hanno radici profonde, le quali affondano nello sviluppo prebellico di quel paese e anche più indietro. L’«austerità competitiva» prescritta alle economie più deboli d’Europa è una pura e semplice baggianata. Competizione significa che il successo degli uni determina l’insuccesso degli altri, che il surplus di una bilancia commerciale corrisponde al deficit di altre. Gli americani non hanno mancato di lamentarsene con Berlino, trovando ben poco ascolto. E il fatto che in determinate fasi di crescita qualche beneficio possa estendersi alla periferia non cambia in nulla la sostanza della cosa. Fatto sta che oggi non ci troviamo con tutta evidenza in una simile fase.

Locomotive e cassaforti

Nonostante la sua vocazione industriale e produttiva anche la Germania è entrata nell’epoca del capitale finanziario. All’immagine della locomotiva si sostituisce quella della cassaforte. L’attenzione rivolta alle banche, ai patrimoni, e ai «risparmiatori» è rapidamente cresciuta in rapporto a quella dedicata ai produttori e agli investimenti. Il nuovo Modell Deutschland ha il volto di Wolfgang Schaeuble e si propone all’insegna dei «conti in ordine». Certamente il vantaggio produttivo acquisito è ancora cospicuo, l’infrastruttura culturale e industriale decisamente solida. Ma l’aria è cambiata. Ed è un’aria mefitica per le economie indebitate dell’Europa meridionale e per lo sviluppo dell’integrazione europea in termini non solo brutalmente contabili. Il ruolo della Germania si è dunque andato configurando come un freno.

Il risvolto politico di questo cambiamento è evidente. La Bundesrepublik resta una delle più solide ed efficienti democrazie d’Europa, ma se non vogliamo spingerci fino a denunciare una rinascita del nazionalismo tedesco, converrà comunque non minimizzare quella ripresa di «egoismo nazionale» che sta alimentando pericolosi slittamenti antieuropei nell’opinione pubblica germanica e uno spostamento a destra degli equilibri politici a Berlino.