Allo scoccare del suo sessantaduesimo compleanno il Festival Internazionale di Musica Contemporanea della Biennale decide il grande passo: sbarca in America. Anzi nelle Americhe: nord, centro e sud. Ha un bel titolo (autobiografico): Crossing the Atlantic. Si può dire così che la fissa dell’eurocentrismo, già intaccata con la famosa edizione del 2003 coordinata da Uri Caine, che era rimasta, però, come avvolta in un alone di «eresia» o di «non ufficialità», sia definitivamente passata. Ma di grandi passi questa edizione 2018 ne fa più d’uno. Che lui sia assente perché malato (una tegola che il festival non meritava) o no, rimane l’edizione del Leone d’oro alla carriera conferito a Keith Jarrett. Un jazzman, perdipiù «impuro», votato a un istrionismo sublime.

Un’altra mossa ardita il festival la fa mettendo nella serata inaugurale, il 28 settembre, un tipo come Frank Zappa. È vero che l’iconoclasta leader delle Mothers of Invention ha sempre citato Edgar Varèse tra i suoi ispiratori, è vero che l’austero Pierre Boulez ha reso a lui l’unico omaggio al rock che si sia concesso nella sua vita, ma Zappa è impresso nell’immaginario di tutti come un personaggio della scena popular. Curioso e ambizioso fino a scrivere (o assemblare) nel 1992 un’opera in 19 movimenti per ampio organico da camera (si potrebbe anche definire sinfonico) che si chiama The Yellow Shark. L’ha resa famosa e pregiata in cd uno dei gruppi di musica contemporanea più importanti al mondo, l’Ensemble Modern. A Venezia, al Teatro Goldoni, per la prima volta con la versione integrale, toccherà al Parco della Musica Contemporanea Ensemble diretto da Tonino Battista accettare il confronto con i prodigiosi colleghi di Francoforte. Avrà un grande vantaggio: la partecipazione del formidabile vocalista David Moss.

The Yellow Shark è un lavoro adatto a far da ponte tra il mondo musicale «dotto», sia pure radicale, e il mondo rock, post-rock, avant-rock. Ci sono dentro echi del primo ‘900 nordamericano, echi delle avanguardie storiche, echi di progressive. L’orchestrazione è raffinata, da vero maestro compositore, ed è anche astuta perché lascia spazio ai sapori beffardi, agli impasti coloristici cordiali, ai ritmi incalzanti.
Altro grande passo. Proseguendo nella ricerca di eventi del programma che faranno mormorare sentenze malevole dei critici alle spalle del direttore artistico Ivan Fedele troviamo il 2 ottobre un’opera tango di Astor Piazzolla, Maria de Buenos Aires. Scritta nel 1968 e dedicata a Milva. Danza, recitazione, canto, forte presenza del bandoneon. Tutto a condire una storia un po’ surreale: una prostituta nella periferia della città prima perseguitata e poi sacralizzata, ma dopo morta. Un’opera folk con pesantezze melodrammatiche in più.

E la musica contemporanea vera e propria, magari con un buon tasso di sperimentalità, c’è o non c’è in questo festival? Tranquilli, c’è. Americani noti come improvvisatori free e meno noti come compositori «dotti», George Lewis e Sam Pluta, sono in programma il 1° ottobre con lavori per quartetto d’archi. Li interpreta il Mivos Quartet. Il Lewis trombonista è uno degli eroi della prima fase dell’Aacm di Chicago insieme ai Muhal Richard Abrams, Anthony Braxton, Roscoe Mitchell. Quanto a Pluta è un lanciatissimo «compositore istantaneo» con l’elettronica e il laptop. Altri americani avanzati e ormai classici, Cage, Crumb e Cowell, suonati dalla grande pianista Margaret Leng-Tan, dividono la giornata del 3 ottobre con europei illustri: Ferneyhough, Manoury, Haas, Murail affidati all’Ensemble Linea.