«Alfred Jarry mi apparve come la personificazione di un fiume, un giovane fiume senza barba, in abiti bagnati da annegato. Baffetti cadenti, redingote dalle falde ciondolanti, una camicina leggera e scarpe da ciclista: tutto aveva qualcosa di tenero, di spugnoso».

Così Apollinaire che descrisse in modo impareggiabile le paradossali vicende di quello che Gide aveva definito un «coboldo dalla faccia imbiancata, conciato come un pagliaccio da circo, che recitava la parte di un personaggio fantastico, costruito, decisamente artificioso». Il riferimento è alla figura di Père Ubu, verso cui Jarry instaurerà una sorta di identificazione, arrivando ad atteggiarsi come quella creatura carnascialesca che deturpa i vocaboli in maniera sublime e triviale, facendo impostare una voce ora gracchiante ora metallica, da «schiaccianoci» (Gide), al suo altrettanto buffonesco artefice.

Con lo stesso impegno manifestato in ambito creativo (o distruttivo) il fautore della patafisica, «scienza delle soluzioni immaginarie» foggiata nel Faustroll, frequentava parecchi sport: scherma, canottaggio, pesca, tiro al poligono, ma soprattutto ciclismo.

La bicicletta rappresentava, per questo antesignano del simultaneismo futurista e della marinettiana «bellezza della velocità», l’incarnazione dell’uomo-macchina, quanto di più moderno la tecnologia potesse allestire all’epoca, creando un prodigioso miracolo meccanico che diventava appendice del proprio corpo.

«I Rosny hanno già chiamato la bicicletta nuovo organo; essa è soprattutto un prolungamento minerale del nostro sistema osseo, ed è quasi infinitamente perfezionabile, essendo nata dalla geometria», dichiarava in un articolo che precorre il cyborg.

Lo scrittore acquistò l’ultimo ritrovato ciclistico il 30 novembre 1896, una decina di giorni prima che Ubu roi andasse in scena al Théâtre de l’Œuvre di Parigi con regia di Lugné-Poe, sconcertando il pubblico dei benpensanti con la reiterata imprecazione «Merdre».

Il modello di «velocipede» di cui Jarry si era invaghito, una Clément de luxe 96 course sur piste, faceva sfoggio di sé presso il negozio di un tranquillo commerciante sito al n. 12 di Quai Jehan-Fouquet a Laval, cittadina bretone che diede i natali, oltre al Doganiere Rousseau, anche all’autore di Ubu ventitré anni prima.

Il commerciante in questione, tale Jules Trochon, era il titolare di Trochon-Vélo, un’ampia bottega che vendeva macchine da cucire e biciclette (si noti il connubio, non inconsueto a quei tempi) frequentata da Jarry per aver comprato il precedente veicolo a due ruote.

[do action=”quote” autore=”G. Apollinaire”]Alfred Jarry mi apparve come un giovane fiume senza barba: baffetti cadenti, redingote dalle falde ciondolanti, una camicina leggera e scarpe da ciclista…[/do]

Si poteva acquistare una normale bicicletta con un centinaio di franchi, ma Jarry optò per un modello all’ultimo grido, che costava cinque volte di più. Si limitò a firmare alcune cambiali e ritirò a Parigi la sua bicicletta nuova fiammante, la stessa con cui venne immortalato in una celebre istantanea del 1898 mentre esegue un surplace nei pressi del Falansterio di Corbeil, che condivise per un certo periodo con altri collaboratori del «Mercure de France». Vi figuravano i suoi mentori Alfred Vallette e la moglie Rachilde, autrice del libro di testimonianze Alfred Jarry ou Le Surmâle des lettres (1928).

Non contento, Jarry tornerà da Trochon nel febbraio 1897 per procurarsi tre cerchioni in legno del valore complessivo di 20 franchi, firmando un’altra cambiale. Ma lo scrittore, inconsapevole del valore che avrebbero acquisito con il tempo i suoi autografi, si limitava solo a firmarle, le cambiali. Trochon si rivolse allora all’ufficiale giudiziario di Laval, ottenendo in cambio due miseri acconti di 5 franchi cadauno, versati rispettivamente in data 6 novembre e 8 dicembre 1897.

Impietosita dalle lamentele del commerciante, la sorella Charlotte, residente poco distante dal suo negozio, gli versò altri 15 franchi. Ricapitolando, il prezzo di bicicletta e cerchioni ammonta a 545 franchi; ne sono stati versati in tutto 25. Mancano all’appello 520 franchi, che nel frattempo sono diventati, compresi gli interessi, 555. Nonostante il valzer di ingiunzioni di pagamento e clausole vessatorie varie, lo scrittore rimase inadempiente fino alla richiesta di uno stuzzicadenti al suo «merdico» in punto di morte, avvenuta il primo novembre del 1907.

«Ma Jarry, cervello che inventa una nuova realtà deformando quella vera, non si ferma mai al mero debito: in genere inserisce i suoi creditori tra le figure da dileggiare e canzonare. La sua regola è: prima il danno, poi la beffa. E dunque, come se fosse lui ad avere ragione in questa storia, trasforma la figura del creditore in quella di un importuno seccatore e ne deforma il nome da Trochon in Troccon [“troppo cretino”, n.d.r.], personaggio che, nelle vesti di un detestato ufficiale giudiziario, appare nel 1898 nelle Gesta e opinioni del dottor Faustroll patafisico» precisa Antonio Castronuovo nel suo Ladro di biciclette, cent’anni di Alfred Jarry.

Nella biografia Alfred Jarry, una vita patafisica, Alastair Brotchie descrive la bicicletta: «Essendo un modello da competizione, la meravigliosa Clément luxe di Jarry era essenziale: niente accessori come parafanghi, copricatena e freni. Il complesso meccanismo che blocca la ruota posteriore doveva ancora essere perfezionato e gli eventuali freni per la ruota anteriore avrebbero sbalzato il ciclista oltre il manubrio. Disponeva invece di una ruota a scatto fisso: per fermarsi bisognava agire sui pedali o tenere il piede su uno pneumatico (…). La bicicletta di Jarry, quindi, aveva una trasmissione a presa diretta e un solo rapporto. Era qualcosa di più di un veicolo: era una macchina per scrivere a propulsione muscolare alimentata dall’alcol».

Il riferimento riguarda il particolare regime dietetico di Jarry che, secondo Rachilde, inaugurava la giornata tracannando due litri di vino bianco per passare, a metà mattinata, a tre bicchieri di assenzio e a pranzo alternare bianco, rosso e fée verte. Nel pomeriggio caffè corretto con acquavite; a cena, dopo vari aperitivi, altri due litri di vino. A volte allungava il liquore di turno con una goccia di inchiostro. Non era forse uno scrittore?

Le imprese ciclistiche raggiungeranno la loro apoteosi quando Jarry scenderà da una collina con un rimorchio attaccato alla bicicletta, contenente nientemeno che l’atterrita Rachilde. Durante la rocambolesca discesa il rimorchio supererà il veicolo e Jarry, dimostrando, in barba al retaggio alcolico, una preparazione atletica non comune, riuscirà a scendere in corsa dalla bicicletta tagliando con un coltello la fune che la congiungeva al rimorchio. Quando arrivò, trafelato, Vallette, convinto di trovare due corpi sfracellati contro un pilone, lo scrittore serafico si limitò a bofonchiare: «Uff, sire, abbiamo la gola riarsa. Andiamo a bere».

Jarry si recò ai funerali di Mallarmé pedalando per trentadue chilometri, da Corbeil a Samoreau. Si presentò alla funzione in tenuta da ciclista. Siccome aveva le scarpe sfondate calzò, sotto i pantaloni alla zuava, un paio di ballerine gialle prestategli da Rachilde, attirandosi gli strali di Mirbeau.

Annota Brotchie: «Come sappiamo, fin da bambino Jarry era un ciclista assiduo e appassionato. Al Falansterio gareggiava con il treno di Parigi negli undici chilometri tra Corbeil e Juvisy, dove i binari correvano abbastanza vicini alla strada».

Tale sfida venne poi elaborata nella scena del romanzo avveniristico Il Supermaschio in cui una quintupletta, gravata dal peso di un corridore morto di crepacuore, sorpassa una locomotiva durante una gara lunga diecimila miglia. Il narratore precisa che il velocipede arrivò a superare i trecento chilometri orari, impresa che neppure le coeve smargiassate parolibere di Marinetti e accoliti sarebbero state in grado di eguagliare.

L’entusiasmo per la bicicletta si manifestò in una serie di scritti tra cui I pedoni investitori, articolo in cui l’autore denuncia i pedoni che intralciano con la loro presenza in strada il tranquillo girovagare dei ciclisti. Jarry riuscirà nell’intento di trasferire metaforicamente le vicissitudini legate alla stessa passione di Cristo nel programma di una tappa di montagna.

Il testo, di cui riportiamo l’incipit, apparve su «Le Canard sauvage» dell’aprile 1903: «Barabba, interpellato, dichiarò la resa. Lo starter Pilato, facendo partire il suo cronometro ad acqua o clessidra (…) diede il via. Gesù partì a tutta birra». Come finisce? Il protagonista continua la sua corsa «da aviatore».