Ci ha letteralmente travolti la bellezza del ritrovato primo lungometraggio di Welles Too Much Johnson girato nel 1938 ben prima di Citizen Kane. Incompiuto solo in quanto lo è tutta l’opera di Welles. Ma tutt’altro che da apprendistato dilettantesco come cautamente insinua persino qualcuno tra quanti hanno il merito della riscoperta. Welles, per fortuna, è sempre rimasto un geniale dilettante, altrimenti sarebbe un insopportabile cineasta del controllo d’autore.

Vanno messi un po’ di puntini sulle i per questo fondamentale ritrovamento, per cui Cinemazero, Cineteca del Friuli, Paolo Cherchi Usai (cui si doveva già la prima proiezione di Fear and Desire di Kubrick), Ciro Giorgini e lo sfortunato regista cividalese Mario Catto (morto assiderato l’anno scorso a Milano a 42 anni senza aver mai saputo di aver indirizzato un anonimo ammasso di pellicola verso la direzione giusta) andranno iscritti a lettere cubitali nella storia del cinema. Merito ulteriore è non essersi accontentati di un menzognero «restauro digitale» (che, l’abbiamo visto altre volte anche qui, vampirizza i film girati su pellicola trasformandone il corpo in cadavere squisito) ma di averne voluto una stampa analogica a 35mm. Puntini sulle i per andare però oltre le cautele che hanno suggerito una proiezione in anteprima mondiale «didattica» con tante preziose informazioni ma che ora dovrebbe aprire la strada a proiezioni del film puro e semplice, pienamente godibile tantopiù se accompagnato da una musica che recuperi quella originalmente prevista di Paul Bowles (non uno qualsiasi, dunque, ma un importante scrittore occasionale musicista).

E ancora puntini sulle i per dire che ma che cosa è successo perché la copia venisse allora spedita in Italia e approdasse per caso a uno spedizioniere di Pordenone? [do action=”citazione”]Il film non appartiene solo al giovane Welles ma anche a quello maturo, se fino al 1969 egli vi ha apportato ritocchi di montaggio, e la copia proiettata deriva da questo «last cut» databile quindi più precisamente 1938-1969.[/do]

Forse bisognerebbe esaminare la polizza d’assicurazione sulla casa spagnola di Welles, bruciata nel 1970 e nel cui rogo secondo le dichiarazioni del regista il film sarebbe scomparso. Invece esso è arrivato in Italia, dove nel 1969 Welles viene a interpretare il capolavoro del miglior periodo di Huston, Lettera al Kremlino. Film che appunto si gira a Cinecittà, quindi è ipotizzabile che i precedenti ultimi ritocchi di montaggio (per farne dono di compleanno al protagonista e amico Joseph Cotten, secondo parole di Welles) gli avessero fatto venire voglia di farne qualcosa di pubblicamente proiettabile: dopotutto i film di Welles sono sempre orientati dal caso, e prima di F for Fake o del ritrovato It’s All True si poteva ben immaginare un «compiuto» Too Much Johnson.

Ma che cos’è dunque questo film? Dopo aver realizzato un altro breve film muto, Hearts of Age, Welles fa rivivere le comiche sennettiane per un entr’acte (volutamente citiamo il precedente di Clair e Satie) di un suo spettacolo teatrale. Ma del comico vi rivive la più pura isteria, che fa percorrere al protagonista, un Joseph Cotten all’epoca attore teatrale ma già grandissima presenza di cinema, tutto lo spazio americano, innanzitutto urbano, attraversandolo nelle sue altezze, per giungere infine a una ricostruita Cuba (e viene in mente la performance di messa in scena di un film che ricrea da dentro quell’isola, Soy Cuba di Kalatozov, altro film riemerso a distanza).

Si pensa naturalmente anche alle performance del Harold Lloyd vertiginoso (il cui The Freshman ha opportunamente concluso il festival durante il quale l’abbiamo visto citato nel bel film di Asquith in versione svedese e in uno dei più bei film d’animazione sovietici). Ma oltre Lloyd e Sennett (di cui si è visto qui un bellissimo Mabel Normand da lei diretto) si va anche oltre il territorio della comica, è l’America tout-court il vero oggetto del film, compiuto prologo a Citizen Kane che peraltro fu varato dalla RKO dopo una proiezione-provino di questo Too Much Johnson. E non è senza interesse che assistente del film fosse John Berry, cineasta fatto diventare esule dal maccartismo. Il film rientra di rigore tra le massime isterie americane che includono il «maccartista» My Son John di McCarey e The Cobweb di Minnelli.

Abbiamo parlato di ucronia nella presentazione del festival, dopo il quale ce ne risuona l’assonanza con Ucraina, da cui sono arrivati altri capolavori congelati, anche se purtroppo in copie DCP che fanno venir voglia di vederli davvero così come dopo aver visto un Caravaggio in riproduzione si sente il bisogno di avvicinarsi al corpo reale del dipinto, e secondo Zurlini persino di toccarlo: la vera arte, si sa, è profondamente hard. Non è stato possibile toccare ma solo intuire la bellezza dei riproposti, immensi Dovzenko, o delle riscoperte assolute come il Heorhii Tasin di Il vetturino notturno che provocò persino proteste proletarie contro il suo psicologismo borghese e oggi (ucronia, appunto) ci appare il miglior compagno di strada del cinema rivoluzionario, proprio perché della rivoluzione dà una cupa immagine notturna, ripresa dall’operatore tedesco Albert Kühn, e a tratti quasi parodia la scalinata e la carrozzella del Potemkin.

Splendido anche il comico L’opportunista di Spikovski, in cui la rivoluzione trova il suo eroe in un cammello, miglior preludio a un Ioseliani.
Ma nel continente sovietico le vie di cinema opposte possono ormai incontrarsi nella verità della grandezza lasciando fuori solo i film caduchi. La madre di Pudovkin, qui rivisto, si rivela un grande film dell’immagine inconscia della rivoluzione, altro che film ufficiale o psicologizzante! Lo splendido trailer ucraino dell’Undicesimo di Vertov, che sembra realizzato da Saul Bass, esplicita come l’estetica portasse a quella vertigine che un potere calcolatore, e che perciò ha perso tutti i calcoli, non poteva sopportare.

Un magnifico collegamento nel programma si è creato con i film di Gerhard Lamprecht, grande anello mancante del cinema tedesco, nella cui opera, balzachiana e verghiana, si gioca il destino dei vinti (o degli ultimi, come ben dice il titolo del programma, alludendo anche al capolavoro friulano di Pandolfi). Cinema che esplicita la preoccupazione langhiana per le giovani generazioni, non a caso rovesciatasi nel fondamentale Hitlerjunge Queux di Steinhoff (regista su cui il progetto di Horst Claus, quest’anno accantonato, merita altre tappe di riscoperta), spostandolo anche sul mondo della prostituzione e su tutto l’universo sociale, come analizza Wolfgang Jacobsen. E ben vi si è collegato Scherben di Lupu Pick e Carl Mayer.

Bisogna almeno accennare alle altre fondamentali rivelazioni del programma: il cineasta svedese maupassantiano Gustaf Molander, di cui si sono visti quattro film notevoli (uno con grande Lil Dagover) e da riscoprire anche per i film sonori tra cui quello «remakato» da Cukor, come si è notato grazie a Roberto Turigliatto; il bel programma giapponese (con due Daisuke Ito e il film lesbico di Jiro Kawate e Nobuko Yoshiya) dove nella forse troppo distante performance benshi si è però ben incuneata una delle due versioni del grande The Blacksmith di Keaton; le meraviglie animate di Messmer, Fleischer, Terry e degli artisti sovietici analizzati da Peter Bagrov; alcuni film italiani tra cui è emerso Il gallo nel pollaio con Vincenzo Scarpetta che è forse il miglior film di Enrico Guazzoni visto finora.