Gerusalemme è un luogo unico. Gerusalemme mette in crisi. Gerusalemme è visitabile, da turista, solo in modalità «cecità», scegliendo di non vedere e non sentire. La sua atmosfera non è rintracciabile a nessuna latitudine. Si può restare abbagliati dalla bellezza confusa e avvolgente della Città Vecchia e dalla luminosità dei colori della Spianata delle Moschee. Si può trovare il proprio spazio, e immaginare un po’ di silenzio, tra le troppe candele del Santo Sepolcro o i fedeli nella piazza che dà sul Muro del Pianto.

CI SI PUÒ SCONTRARE con migliaia di volti diversi, abbigliamenti diversi, lingue diverse e fingere che Gerusalemme sia la città di tutti, chiunque, ognuno. Ma è impossibile, se si abbandona la cecità, non cogliere l’atmosfera cupa e surreale che vi aleggia. Basta poco, basta dare le spalle alla Porta di Damasco, il principale ingresso alla Città Vecchia, il più militarizzato, e tracciare una linea immaginaria di fronte a sé: quella linea divide due mondi, a ovest la Gerusalemme vestita all’europea, la vetrina della democrazia e del benessere; a est i quartieri negletti, affollati, pressoché privi di servizi, dove la case si appoggiano l’una sull’altra nel tentativo fallimentare di ricavare il proprio spazio di vita.

È questa la vera Gerusalemme, quella di chi la osserva per dare una spiegazione al malessere ignoto che assale mentre ci si cammina in mezzo. La racconta Meir Margalit nel libro Gerusalemme la città impossibile. Chiavi per comprendere l’occupazione israeliana (Edizioni Terra Santa, pp. 240, euro 16), appena pubblicato. Margalit non è un osservatore qualsiasi, è un protagonista: ebreo israeliano nato in Argentina 67 anni fa, è stato quasi ininterrottamente dal 1998 al 2014 membro del consiglio comunale di Gerusalemme con il partito della sinistra sionista Meretz.

UNA SCELTA SEGUITA ad anni travagliati: immigrato in Israele nel 1972 con un gruppo della destra, partecipa alla fondazione di una colonia nella Striscia di Gaza e l’anno dopo alla guerra dello Yom Kippur. Che stravolge il suo modo di guardare alla questione palestinese: i decenni a seguire lo vedranno in prima linea a difesa dei diritti dei palestinesi e tra i fondatori della nota associazione Icahd, il comitato contro la demolizione delle case palestinesi da parte delle autorità israeliane.

Il suo è un racconto dall’interno, dagli ingranaggi della burocrazia dell’occupazione, del suo apparato amministrativo. Margalit lavora fianco a fianco con i burocrati, quei funzionari anonimi responsabili dell’applicazione sterile di normative e regolamenti che da 50 anni soffocano l’identità palestinese. «L’impronta distintiva dell’occupazione è l’anonimato», scrive l’autore, rimando tetro a regimi autoritari e tentacolari, a cui ognuno prende parte con il suo pezzettino di colpa ma fingendosi inconsapevole, dunque innocente. La microfisica del potere di Foucault.

La città che descrive Margalit, lo dice lui stesso, è una non-città. È una città impossibile, una città affatto santa ma perversa, è «lo spazio fluido dove tutto è precario».

È UNA NON-CITTÀ perché manca di una natura comunitaria, perché divisa in due regimi legali e in due quotidianità, quella dello Stato di diritto israeliano e quello della negazione palestinese. Gerupazione è il termine coniato da Margalit, perché l’occupazione di Gerusalemme è unica al mondo: è militare, amministrativa, civile, è scolastica, culturale, economica, politica, è toponomastica. Nessun tassello della vita quotidiana palestinese gli sfugge.

Margalit conosce i micropoteri che descrive nel dettaglio e che legge attraverso lenti sociologiche e filosofiche, richiamando al lettore pensieri e teorie capaci di descrivere questa realtà senza eguali. Lo fa seguendo un imperativo prima di tutto morale: «Le barbarie che il governo (israeliano) sta perpetrando nella sua parte palestinese non mi danno tregua», scrive nelle prime pagine del libro, portato alla luce da «quattro» Margalit, il politico, il funzionario pubblico, il pacifista e l’abitante di Gerusalemme.

L’AMORE per la sua non-città abbaglia insieme al dolore nel vederla eletta a teatro dell’ingiustizia di Stato, strutturale, funzionale al radicamento di una narrazione e alla cancellazione dell’altra. Gerusalemme è il laboratorio del controllo sociale, realizzato con strumenti interconnessi: la distribuzione iniqua dei servizi con cui Israele condiziona il livello di vita degli abitanti (per dare i numeri, si traduce in un tasso di povertà superiore all’80% per i palestinesi e al 25% per gli israeliani); la ripartizione degli spazi residenziali per limitare lo sviluppo della comunità palestinese (per cui l’accesso a permessi di costruzione è una chimera); la mancata attribuzione della cittadinanza ai palestinesi, meri «residenti», apolidi e dunque precari a vita; la repressione identitaria e il controllo militare, amplificato dal dedalo di telecamere che osservano ogni spostamento e dagli arresti su base settimanale di attivisti e giovani; l’istillazione della paura di perdere il poco che si è avuto in concessione; il collaborazionismo spillato distribuendo pizzichi di privilegi a chi non ha alternativa; e infine il modello capitalista del consumo asettico per alleviare, con una finzione di benessere economico, l’assenza di diritti e dignità.
Questa è Gerusalemme e non dovrebbe esserlo più.