È nata e sta avanzando la marea dell’Italia incivile, negatrice allegra e incosciente di se stessa: un movimento inarrestabile, vittorioso, acclamato da «media» plaudenti. Ne cogliamo un segno in un episodio recente accaduto a Firenze, la città capitale culturale e ormai, anche latamente, politica del paese.

Guardiamo le immagini del Battistero di Firenze, il «bel San Giovanni» di Dante centro e simbolo della vita cittadina, poco tempo fa avvolto nel luminoso foulard di una «firma» della moda; e quelle di un ponte chiuso ai cittadini per un pranzo di gala di pochi ricchi e potenti. Non un ponte qualsiasi, ma quello di Santa Trinita, ricostruito con l’impegno di tutti e diventato il simbolo di quel ritorno alla vita libera e civile nella città ferita dalla guerra dove, non per caso, «il ponte» fu il nome scelto da Piero Calamandrei per la sua rivista: nei pressi, la malinconica mole di una Biblioteca Nazionale, salvata nel novembre del 1966 dal disastro dell’alluvione da uno straordinario, indimenticabile movimento collettivo spontaneo di giovani, oggi luogo desueto e impoverito che cerca anch’esso di attirare qualche ricco offerente privato per cedergli il diritto d’uso dei suoi saloni gremiti di libri rari.

Chi difende queste iniziative parla di mecenatismo: non c’è niente di male – si dice – se i privati che possono, singoli o società, offrono danaro fresco a istituzioni e monumenti e città in cambio dell’uso temporaneo di luoghi, monumenti e opere chiamati a prestare temporaneamente il richiamo della loro bellezza e celebrità a esigenze di pubblicità. Ora, il legame stretto tra Mecenate e Orazio era percorribile nei due sensi: offerta generosa del potente al poeta per consentirgli di sviluppare la sua creatività, ma anche tributo cortigiano e legittimazione del potere da parte del poeta. Nel tempo, si sono sviluppate sia le premesse cortigiane di un rapporto servile dell’artista col potente di turno sia l’avvio di un costume di erogazione abituale, non gridata, di ricchezze dai privati alle istituzioni culturali e ai luoghi di studio e di ricerca: pratica regolata e incoraggiata da norme fiscali adeguate nelle moderne e più avanzate democrazie. Di questo secondo aspetto nel costume italiano si riscontrano solo esili tracce. Avanza invece sempre più un fenomeno che di mecenatesco ha ben poco: lo sfruttamento della bellezza, quella dei monumenti celebri e dei capolavori d’arte, come additivo pubblicitario. Ma davanti a episodi come quelli fiorentini bisognerà pure che ci si fermi un momento a riflettere, a chiederci che cosa stia succedendo, dove ci porti il movimento in atto.

Una cosa è certa: il patrimonio di bellezza che è il tesoro immateriale del nostro paese, non è mai stato tanto esaltato come in questi nostri tempi. Il fatto è che quel tesoro oggi è sul mercato, è in vendita: quello che è stato per anni l’auspicio di governi «modernizzatori» oggi finalmente si dispiega sotto i nostri occhi. Agli inizi, ci furono pulsioni isolate: come quando al centro napoletano di studi sui papiri ercolanesi, luogo di ricerche ardue e di pubblicazioni per definizione riservate a pochissimi lettori, un direttore generale giunto da Roma fece presente che era tempo di smetterla di chiedere soldi allo Stato: si decidessero i ricercatori a portare sul mercato la loro merce.

Oggi l’ideologia mercatista trionfa. Bisogna chiederci dove ci porterà. Un dato è evidente: siamo davanti a processi che investono e modificano il nostro rapporto con la città, cioè con una realtà nata in Italia e così fortemente connotata dalla nostra storia da coincidere col senso dell’appartenenza alla nazione e con l’idea che nel mondo si ha dell’essere italiani.
La città, la piazza, sono realtà che parlano italiano nel mondo. Anni fa a Miami, gigantopoli in continua frenetica espansione, fu creato un nuovo quartiere: si irradiava a partire da un centro, uno spazio circolare dominato da alcuni edifici monumentali, centri religiosi e civili. Lo chiamarono con una parola italiana – «La piazza».

La città, il cerchio magico con al centro la piazza, attraversato dalla croce delle strade e circondato dall’anello delle mura, se la portò nel cuore e la raccontò in libri ancor oggi di viva e appassionante lettura un esule dall’Italia delle leggi razziali, il medievista Roberto Sabatino Lopez. Di recente, è stato un finissimo studioso e poeta e narratore, Giancarlo Consonni che ha dedicato alla città un libro bello e pieno di idee e di riflessioni degne di essere attentamente meditate: La bellezza civile. Splendore e crisi della città (Maggioli, Sant’Arcangelo di Romagna). In pagine che si leggono come un bilancio estremo, una elencazione testamentaria di beni nel passaggio da uno ad altro padrone, Consonni ripercorre un’intera tradizione di studi e di immagini letterarie, da Cattaneo a Marino Berengo, da Elio Vittorini (Le città del mondo) a Italo Calvino (Le città invisibili). E analizza modelli di creazioni urbane del passato, come Matera.

Importante è soprattutto il punto d’avvio della storia che ci racconta: una storia che comincia con Giambattista Vico, con le pagine bellissime e sempre suggestive che aprono la Scienza nuova, quelle dove si descrive l’uscita originaria dell’umanità dai boschi e l’origine della città , inventata «per viver sicuri gli uomini dagl’ingiusti violenti». È da qui che comincia la vicenda della città come patrimonio comune dei cittadini e proprio per questo destinata acontinua gara di bellezza e di creativa socialità con tutte le altre formazioni urbane.

Oggi il movimento si è rovesciato. Ed è singolare il fatto che perfino nel confuso parlare di «beni comuni» quello che è rimasto nell’ombra sia proprio il tema della città: come se in quella che Stefano Rodotà ha definito la «ragionevole follia» dei beni comuni, nel fare l’inventario del furto subìto e dei beni da recuperare ci si fosse dimenticati del più grande di tutti – la città, la sua bellezza, devastata insieme a quella del paesaggio naturale: un processo che ha impoverito l’Italia più di ogni altro paese al mondo, proprio in ragione della ricchezza dei beni posseduti. Il fenomeno è in atto, ne siamo tutti spettatori e vittime. La corrente è così forte da sembrare una catastrofe naturale, un evento inspiegabile, misterioso.

Non abbiamo una risposta alla domanda che Giancarlo Consonni si pone: «Come si spiega che in questi sessant’anni, a fronte di un’esasperata estetizzazione per ciò che concerne le persone fisiche, proprio la bellezza sia fra le assenze più vistose nelle trasformazioni che hanno investito i paesaggi e gli insediamenti umani?». Perché un fatto è certo: da tempo, non da oggi, la bellezza è in caduta rapida sia nelle città sia nelle campagne. Ne sono prive l’architettura colta e quella minore. E intanto si è avviata l’aggressione alla bellezza prodotta nei secoli, «ridotta ormai – scrive Consonni – a fatto residuale». È una corsa verso la disgregazione della convivenza: alla ricchezza degli scambi sociali nella vita civile si va sostituendo la privatizzazione dei simboli fondamentali che nei secoli hanno costituito il fondamento del senso di appartenenza alla città e dell’impegno responsabile per mantenerla viva.