La copertina telata blu (molto vicino al Blue Klein) custodisce tre elementi preziosi che indirizzano alla poetica di Masao Yamamoto: la piccola foto in bianco e nero suggerisce l’immagine di una vetta innevata che procede verso il cielo e un ramo – in primo piano – con i germogli appena accennati, che segna un altro percorso (ma sarà, poi, una vetta innevata e quel segno grafico un ramo?). Poi c’è il titolo, Small things in Silence. Sotto, con un carattere più piccolo, il nome dell’autore. Nato nel 1957 a Gamagori, nella prefettura di Aichi, Yamamoto (vive a Yatsugatake Nanroku, prefettura di Yamanashi) trova nella fotografia lo strumento per catturare la bellezza nelle piccole cose, sollecitando memorie e placando l’ansia della caducità. Ciò appare chiaro anche in Small things in Silence, pubblicato dalla casa editrice ispanico-messicana RM nell’ottobre 2014 e presentato in occasione di Paris Photo. Un libro che ripercorre vent’anni del suo lavoro. «Cosa vedo? Cosa non vedo? Cosa dico? Cosa non dico?»: quesiti come questi sono alla base dell’esercizio intellettuale con cui il fotografo giapponese tenta l’esplorazione dei meandri della conoscenza, tenendo a bada (senza alcuna fatica) le proprie emozioni, per smuoverle – piuttosto – nell’osservatore.

Masao Yamamoto, Kawa=Flow serie #1629, 2014
Uomo e natura dialogano armoniosamente nei vari capitoli: caos, tranquillità, desiderio, costruzione di luce, superamento di spazio e tempo, purificazione (o meglio shizuka», che in giapponese vuol dire anche profumo). Immagini nitide o sgranate, luminose o buie definite dal linguaggio del bianco e nero e modulate nelle tonalità di grigi della stampa alla gelatina ai sali d’argento, talvolta declinate in seppia.
In questa sorta di archivio visuale Masao Yamamoto sfida il concetto stesso di limite, nel tentativo di catturare detto e non detto, così come avviene in tutti gli altri suoi progetti – a partire dagli anni 90 – tra cui i noti A box of Ku (presentato anche in occasione della prima edizione di Tokyo International Photo Biennale nel 1995) e a seguire con Nakazora, Kawa e Shizuka.

Al Grand Palais – sede della più importante fiera internazionale di fotografia – anche il book signing diventa un momento rituale per lui. Il fotografo siede, apre la scatola con il pennarello nero, il sigillo e il tampone con l’inchiosto rosso e poi firma – una ad una – le copie del volume. La gestualità è accompagnata da un silenzio rigoroso. Infine, il suo capo si china in segno di rispetto nel porgere all’acquirente l’ambita copia autografata. Ogni elemento, in fondo, è traducibile nella sua preziosità. La rappresentazione teatrale del gesto stesso ha il suo valore nel fluire del racconto, nella summa del tempo, nell’unità che procede per segni, frammenti.
Ha studiato pittura e calligrafia alla Scuola d’Arte di Gamagori con Goro Saito. In che modo questa formazione ha influenzato la sua fotografia?
Nel mio primo curriculum c’è scritto che ho studiato pittura con Goto Saito. Avevo scritto così perché questo pittore è del mio stesso paese d’origine. Ma la scuola non esiste. Quanto alla calligrafia, non l’ho mai studiata particolarmente, a parte alle scuole elementari e medie. L’origine della mia attività creativa risale al fatto che nella mia famiglia per generazioni si è lavorato come carpentieri. Sono stato sempre in un ambiente in cui era normale creare oggetti. Non solo dipingere e fotografare, anche «fare» manualmente apparteneva al mio quotidiano. Sono un autodidatta.
Lei da piccolo collezionava insetti, poi da adulto ha iniziato a «raccogliere» fotografie. Qual è la sua idea di archivio?
Sì, collezionavo insetti… Quanto alle fotografie più che collezionarle ho raccolto cose belle che stavano intorno a me. Collezionavo immagini attraverso la macchina fotografica. Perciò non sono un collezionista nel vero senso della parola. Il collezionista, se è appassionato d’insetti, a prescindere dalle preferenze cercherà di raccogliere più esemplari possibili. Poi si tratta di classificare, analizzare, verificare e conservare. Per me, la cosa più importante è divertirmi e l’azione stessa del «catturare». Quando ero al liceo mi sono accorto che se non riuscivo a ottenere realmente l’oggetto bello, potevo fissarlo sulla pellicola con la macchina fotografica. Ogni volta che trovavo qualcosa di affascinante, ero trascinato dal desiderio di averlo. Le mie opere sono nate mentre valutavo se il soggetto era veramente bello anche stampato, così come lo era nella realtà, attraverso l’esercizio del mio occhio e della macchina fotografica. La parola archivio non è adatta alla mia «collezione», che rappresenta un tentativo di provare a interpretare e scoprire.
I suoi scatti sono spesso di piccolo formato e sembrano vecchie immagini anonime. In che modo il concetto di tempo entra in relazione con la sua fotografia?
Tante persone credono che il tempo scorra ordinatamente dal passato al presente e al futuro, come le lancette dell’orologio. Ma il flusso temporale non deve essere così semplice. La sua percezione dipende da ognuno di noi, può modificarsi a seconda del proprio cervello. Senza avere paura di equivoci, credo che si possa viaggiare liberamente nel passato, e anche nel futuro, con la propria coscienza, senza chiedere aiuto alla macchina del tempo. L’orologio che scandisce il tempo con lo stesso ritmo è soltanto un meccanismo inventato dall’uomo. È solo una regola. Per trasmettere questa sensazione del fluttuare in libertà nello spazio-tempo sto creando opere che sembrano anonime. Penso che il formato piccolo sia facile da tenere sul palmo della mano e da osservare da vicino.

DSC_0221 - Masao Yamamoto a Paris Photo 2014 (foto Manuela  De Leonardis)
La memoria da una parte e il processo della rimozione dall’altra sembrano una chiave di lettura del suo lavoro. Qual è l’equilibrio tra questi due processi?
Penso che l’uomo crei la memoria intorno ai ricordi piacevoli e dimentichi, in base a quello che gli conviene, quelli sgradevoli. Spero, attraverso le mie opere, di far resuscitare i vari ricordi dimenticati. In un’opera è importante che affiorino sia il definito che l’indefinito. Nello squilibrio di questi due fattori c’è la possibilità che nasca qualcosa che scuota le emozioni.
Natura, paesaggio e corpo sono tra i temi ricorrenti del suo lavoro. Partendo dall’osservazione della realtà isola dei piccoli frammenti che sembrano sospesi come haiku…
Gli haiku esprimono concetti reali, sono come fotografie, ma ognuno può interpretarli in base alla propria sensibilità. C’è chi li considera poesie, concetti filosofici o massime di vita. A volte si sente il fascino di un dettaglio guardando il tutto. Altre, invece, si prova piacere immaginando l’insieme osservando il dettaglio.
Qual è per lei la maggiore difficoltà nel tradurre, o non tradurre, visivamente le emozioni?
Cosa mettere e cosa togliere è l’eterno dilemma di ogni artista. Per creare un’opera la tecnica è necessaria, ma scegliere di aggiungere o sottrarre ciò che è imprescindibile da quello che non lo è, dipende molto dalla sensibilità e non dalla tecnica.

Masao Yamamoto, Kawa=Flow serie #1626, 2014
Cita spesso il monaco e poeta zen Ryokan…
Nel suo haiku composto da solo 17 lettere ho trovato la vastità dello spazio. L’uomo non è altro che parte della natura. Nel flusso del tempo, che sembra continuare dal passato al futuro, si può afferrare precisamente solo un istante del presente e la vita potrebbe essere la stratificazione degli istanti.