Che fosse o meno l’esponente femminile della Nouvelle Vague non ha importanza: Agnès Varda che ha sempre rifiutato di uniformarsi a qualsiasi etichetta, è stata sicuramente una autrice visuale libera e completa. Senza tetto né legge (come il titolo di un suo film), Varda ha attraversato anche i territori dell’arte contemporanea, impervi e discordanti, depistando categorie e discipline rigide e facendo sconfinare il suo immaginario in utopici e devianti oggetti del divenire: arte, suono, street art.

È PROPRIO in occasione di Utopia Station, il bizzarro Padiglione curato da Hans Ulrich Obrist, alla 50/a edizione della Biennale d’arte contemporanea di Venezia del 2003 che Agnès Varda partecipa con una sua poetica e imprevedibile opera: Patatutopia.
Patatutopia era un’installazione video-sonora, distillata su tre canali di grandi dimensioni, il cui progetto era nato durante le riprese di Les Glaneurs et la glaneuse (2000) come «omaggio alle patate abbandonate, raggrinzite e germogliate di nuovo», metafora della vanitas, del tempo e della trasformazione delle cose. «Ho avuto la possibilità di incontrare patate a forma di cuore – confessava la regista – Le ho tenute e le ho osservate. Mi auguro che coloro che entrano in questa installazione siano pieni di emozioni e di sorrisi di fronte al più banale e modesto vegetale, alla patata, e condividano la mia utopia nel credere che la bellezza del mondo si riassuma in quella delle vecchie patate e che queste ci aiutino a vivere e a riconciliarci con il caos».
Un trittico (formato che percorre spesso nelle sue installazioni) in cui mostra le patate scartate perché non conformi alle leggi di mercato. Patate difformi, in modo anche toccanti, come quella a forma di cuore o fragili, come quelle rugose. In ogni caso imperfette ma tattilmente curate, ripulite dalla terra, quasi accarezzate e disposte come una marea in piena, pronte per essere ammirate.

LA STESSA Varda, in una conversazione con l’artista Ursula Meier, spiegava: «Stavo filmando una cartolina che avevo portato dal Giappone, la mia mano è scivolata, l’ho filmata e ho avuto l’impressione che divenisse paesaggio. Mi sono liberata di quel che ero e ho iniziato a trovare interessante questa cosa: le mie vecchie mani rovinate potevano comunque recitare! Era un bene, perché senza farlo intenzionalmente, iniziavano a mettersi in gioco alcuni temi. È la stessa cosa accaduta per le patate che avevo conservato durante le riprese di Les Glaneurs et la glaneuse… Sono invecchiate, si sono rattrappite, hanno germogliato. Le ho filmate, ne ho fatto l’installazione Patatautopia…».
Ma la tensione verso l’arte per Varda è stata sempre latente, fin da quel suo esporsi fisicamente, simile a una navigata bodista, come nel film Les Plages d’Agnès (2008) in cui utilizzava il proprio corpo come schermo su cui proiettare le immagini del mare.

LEI, eccentrico corpo-schermo, è ripresa di spalle, abbigliata interamente di bianco dalla testa ai piedi. Les Plages d’Agnès poi traghettò anche come mostra L’ile et elle, alla Fondation Cartier di Parigi, nel 2006.