Una sera a Harlem, poco dopo l’assegnazione del Premio Nobel a Toni Morrison, vidi un cartello nella vetrina di una piccola libreria. Diceva: «Congratulazioni, Toni Morrison, la nostra amatissima» (our beloved).

La prima volta che ebbi l’emozione di incontrarla le domandai: «Che effetto le fa quel “nostra”?». «Non mi dispiace affatto» rispose lei: «Anzi, mi fa piacere assumermi la responsabilità che si accompagna col fatto di essere rappresentativa. Non mi ci obbliga nessuno, e mi hanno avvertita più volte che poteva essere un peso troppo grande. Ma nei miei libri come nella mia vita io penso molto alle persone che non hanno mai potuto parlare, i ragazzi con le menti bloccate, nelle strade, nella droga. E penso al debito che ho verso le persone che hanno fatto delle cose da cui io ho tratto dei benefici. Penso che non sarebbe giusto dimenticare quel debito, e prendo su di me il debito di persone che non conosco. Perciò quel cartello è un segno di riconoscimento a cui tengo molto. Perché vuol dire che non sono sola. C’è stato chi ha fatto cose molto importanti affinché io non fossi sola e affinché potessi essere il più libera possibile. Questa libertà comporta obblighi, e mi dà forza: ci sono moltissime cose che non riuscirei a sopportare, se dovessi farlo solo a mio nome».

Diceva Toni Morrison: «Scrivo qualcosa che ho cominciato a chiamare letteratura da villaggio, letteratura per il villaggio, per la tribù. Letteratura contadina per la mia gente». Donna e nera, scrive grazie alla sua gente, e scrive per la sua gente, nella lingua della sua gente. Si mette in un angolo, e quell’angolo diventa il centro da cui cambia la coscienza di tutti. La domanda essenziale è sempre la stessa: che cosa vuol dire essere umani. E, come Primo Levi, risponde che solo coloro la cui umanità è stata freddamente messa in dubbio – Levi equiparato dai nazisti a vermi e insetti, lo schiavo Frederick Douglass catalogato fra i cavalli e i porci della piantagione, la sua protagonista Sethe di cui il padrone insegna a distinguere «su una colonna i lati umani, su un’altra quelli animali», il suo personaggio Paul D che impara a sentirsi inferiore anche a un animale da cortile – solo loro, a cui è stata negata, possono insegnare a tutti noi che cosa vuol dire umanità. «E nessuno, nessuno al mondo, avrebbe elencato su un foglio le caratteristiche animali di sua figlia, sotto l’apposita colonna».

La letteratura di villaggio di Toni Morrison è letteratura di battaglia, rivendicazione di umanità e strumento della sua ricostruzione. Solo lei riesce a tenere insieme due modalità che nella storia della letteratura afroamericana sembravano in conflitto fra loro: la denuncia dell’oppressione (Richard Wright) e l’esaltazione della bellezza e grandezza della cultura afroamericana (Zora Neale Hurston). Toni Morrison sapeva che quella bellezza nasce e vive under duress, sotto costrizione, ed era un modo per non farsi completamente possedere dall’oppressione, per sopravvivere, per resistere e per combatterla.
In tutta la sua opera coscienza politica e bellezza sono inestricabili: oggi, ha scritto, si pensa che «se un’opera d’arte ha un minimo di impatto politico, allora è corrotta. Io penso esattamente il contrario; è corrotta se non ce l’ha», perché «l’arte migliore è politica e devi essere capace di farla incontestabilmente politica e irrevocabilmente bella al tempo stesso».

COMINCIA TUTTO con la lingua, col doloroso piacere del suo linguaggio «ruvido, sedizioso, aggressivo, manipolativo, inventivo, lacerante, mascherato e smascherante», «parlato e parlante, aurale, colloquiale». Diceva: «Voglio intrecciare il dialettale con il lirico, con il linguaggio standard e con quello biblico, perché è questa l’eredità della mia famiglia». Possedeva e amava pienamente il dialetto e il folklore afroamericani, ma sapeva che la sua eredità culturale era più vasta, e abbracciava e trasformava a suo modo l’intera gamma dei linguaggi dell’America. Cultura afroamericana non è un ghetto ma un orizzonte di possibilità tenute insieme dalla bellezza.
La bellezza – cercata, descritta, riconosciuta, creata – è uno dei pilastri su cui si regge la sua arte. L’altro pilastro è l’amore. Diceva: «Cerco di arrivare a tutti tipi e definizioni dell’amore». Due romanzi hanno l’amore nel titolo: Beloved (1987) e Love (2003); ma una interrogazione sulle possibilità, i rischi, l’essenza, l’assenza dell’amore ricorre e si rinnova in tutta la sua opera. La «connessione» che tiene insieme la trilogia storica Beloved, Jazz e Paradise, diceva, «è la ricerca della persona amata».

Come la bellezza, anche l’amore è under duress: come posso amare me stessa quando sono collocata alla stregua di un animale da fattoria, come posso amare i miei figli quando non mi quando sono proprietà di altri? La violenza distorce anche l’amore, il modello della schiavitù come proprietà e possesso di un altro essere umano, de quello del capitalismo come brama di possesso, interferiscono con le forme possibili dell’amore. «Troppo spesso», dice Morrison, «l’amore consiste nel possedere un’altra persona». «La sola cosa importante che devi sapere: possedere le cose, e che le cose che possiedi posseggano altre cose. Allora possiederai te stesso e anche gli altri», dice il padre al protagonista di Song of Solomon.

Schiavitù e capitalismo – possesso delle cose, possesso delle persone, possesso fra le persone: come ha scritto Jean Wyatt, una delle sue lettrici più acute, «in tutta la sua opera scorre un tema dominante: la possessività distrugge l’amore». Anche questa è una lezione per tutti; ma ce la insegnano soprattutto coloro che sono stati «posseduti» – oggetti di proprietà e, soprattutto se donne, soggetti violati.
C’è una scena in The Bluest Eye in cui due ragazzi neri stanno facendo l’amore, esplorando la propria sessualità adolescente. Improvvisamente, su di loro incombono «due uomini bianchi, uno con una lampada a spirito, l’altro con una torcia». Quando la luce della torcia si abbatte su di loro, i ragazzi si sentono sporchi e umiliati: lo sguardo egemonico riduce il loro gioco a pura bestialità e gli impedisce sia di amarsi fra loro, sia di amare se stessi.

PARTE DELLA RESPONSABILITÀ che Toni Morrison si assume, come artista e come intellettuale pubblica, saggista, studiosa, è quella di rovesciare questo sguardo. Perciò parlare degli afroamericani nella letteratura americana non significa solo proclamare la presenza degli scrittori neri ma soprattutto, come in Playing in the Dark (Giochi nel buio), mettere a nudo un’assenza, interrogarsi sulla pesante rimozione della presenza nera dal canone letterario riconosciuto. Come si fa, quanta fatica costa, costruire un’immagine letteraria dell’America dove gli afroamericani non esistono, o sono ridotti a banali stereotipi e margini? Che violenza hanno dovuto esercitare – su se stessi! – gli scrittori canonici per riuscirci? Ancora una volta, quando parliamo (o non parliamo) di afroamericani parliamo di tutti: la rimozione della presenza nera distorce e falsifica un’intera cultura. E forse non solo negli Stati Uniti.
Chiuderei con un ricordo. Parigi, 1993, è la prima giornata internazionale di studio su Toni Morrison. Ha appena avuto il Nobel, ma l’incontro era programmato già da prima. I nostri media sono sorpresi e sconcertati (il Nobel a una sconosciuta? Mai sentita nominare… avrà vinto per correttezza politica perché è nera e donna… avrà vinto perché lo impone l’imperialismo americano…) ma gli americanisti della Sorbona si erano accorti ben prima di quasi tutti noi che eravamo in presenza di un classico (a nearness to tremendousness, mi viene da dire, con le parole di Emily Dickinson: la vicinanza, nella persona e nell’opera, di qualcosa di più grande, più vasto, più profondo, più potente. Più umano). Nel suo intervento in quel seminario parigino, una studiosa greca, Stephanie Demetrakopoulos, raccontò: «Stavo leggendo Beloved insieme con un gruppo di donne della Tracia rurale. A un certo punto, una di loro mi interrompe gridando: “Quel libro ha rubato la mia vita. Sono io che ho ucciso mia figlia durante la guerra civile, per evitare che cadesse nelle mani dei fascisti. Quella storia è la mia”». Ancora una volta, Beloved, she’s mine.