Nella cinquina dei film stranieri il vincitore «morale» – come si dice – è Timbuktu di Sissako. Un film magnifico, denso, in cui il regista mauritano, affronta con lucidità speciale il nostro tempo maneggiando quella materia sensibilissima che è il terrorismo islamico. E lo fa con un sguardo «dall’interno», che rifiuta le immagini abusate – e di forte sensazione – di incappucciati e vittime di cui viene inondata la rete per concentrarsi sulla vita, su cosa significa questa violenza nel quotidiano delle persone, su quanto regole imposte con la morte siano prive di qualsiasi significato dicendoci che i primi a pagare tutto questo sono proprio i musulmani. La sua è una lezione preziosa di immaginario poetico e politico che pure non è riuscita a smuovere il granitico sistema dell’Academy, dove a vincere deve essere sempre ciò che è meno disturbante – o almeno che appare come tale.

 

 

Ecco dunque che il film straniero del 2015 è Ida di Pawel Pawlikowski che con La grande bellezza vincitore lo scorso anno condivide lo stesso gusto vintage,in questo caso la patina retrò del bianco e nero elegante, patinato riferimento visuale al cinema polacco della dissidenza anni Sessanta, gli anni in cui è ambientato. Certo i film di Wajda o di Skolimowski – e dello stesso Polanski – di quel periodo non sono universalmente riconoscibili come la Roma della Dolce vita «citata» da Sorrentino, e poi le immagini di Ida hanno a dispetto delle atmosfere cupe di una Polonia grigia, spaventata, segnata da sospetti e pesanti silenzi, una natura in fondo tranquillizzante: nessuna ambiguità, nessuna inquietuidine, molti ammiccamenti, road movie e romanzo di formazione.

 

 

Il mondo della giovane novizia bella e distaccata dal mondo viene sconvolto quando una zia sconosciuta piomba in convento a pochi giorni dai voti per rivelarle che è ebrea e che i suoi genitori sono stati uccisi ma non dai nazisti – si scoprirà – bensì dai contadini polacchi (cattolicissimi e antisemiti). Non solo. La zia partigiana durante la guerra è poi divenuta un giudice potente nel comunismo postbellico tranne che la sua vita da donna «libera» e «peccatrice» è solo squallore, alcol, sesso triste e casuale tanto da impazzire e buttarsi dalla finestra. Ida a quel punto sperimenta il mondo, l’amore, il piacere ma infine siccome tutto è precario – e terribile – decide che il convento è la soluzione migliore.

 

 

La religione affiora anche qui, seppure in modo antitetico, opportunità e non riflessione, Ida non ci interroga proponendosi però come un film «importante», pieno di significati e di tensione nella messinscena alla fine del quale lo spettatore non si sente mai messo in discussione. O almeno pensa che tanto si parla di un’era remota, consolandosi col visetto attonito di Anna/Ida che se ne ritorna al convento. Mentre le domande del mondo (del cinema?) rimangono – giustamente – anch’esse fuori dal quadro.