Gira e rigira, fra i festival dell’estate, si torna sempre volentieri in questo angolo di Trentino, dove da più di trent’anni va in scena il metamorfico festival che ancora porta, un po’ nascosto, il nome di Drodesera. Nel frattempo il festival ha trovato casa nel moresco castello della Centrale Fies; e si è trasformato in una struttura produttiva, una vera e propria factory, che guarda soprattutto ai gruppi dell’ultima o penultima generazione.

Sono questi per una buona parte i protagonisti anche di quest’ultima edizione, che ha titolo Mein Herz, in corso ancora nel fine settimana. Da Codice Ivan a Teatro Sotterraneo, a Pathosformel, alla sempre coinvolgente Francesca Grilli che ha aperto letteralmente il sipario del festival con un’installazione sonora, una successione di tendaggi teatrali consumati dal tempo che lo spettatore attraversa in libertà mentre ascolta il canto di una invisibile voce femminile.

Certo il peso dei tempi si fa sentire anche qui. Tutto sembra contrarsi, come se anche la generosità di sé fosse un lusso. Sarà per questo che si sente di più la stanchezza. La commovente mezzora offerta dagli indemoniati ragazzi di Romeo Castellucci spinge a interrogarsi sull’impossibilità del nostro teatro di produrre opere di più ampio respiro (fa eccezione ormai il solo vecchio Ronconi…). La formazione di Teatro Sotterraneo si presenta dimezzata, attorno all’imprescindibile figura fondante del dramaturg Daniele Villa, nel nuovo progetto Be legend! dedicato all’infanzia di personaggi più o meno leggendari – e infatti i posti rimasti vuoti nel cast sono occupati da bambini. Ed è inevitabile ma forse inutile chiedersi se (e quanto) sia la struttura del gruppo a determinare la forma dello spettacolo o viceversa.
Be legend! è un progetto seriale destinato a riprodursi variato nelle successive tappe su personaggi diversi, un format insomma, facilmente riproducibile – e il moltiplicarsi di questa modalità operativa, già osservato a Santarcangelo, avrà pure qualche ragione. Identica è la struttura delle due puntate presentate di seguito. I due attori in scena presentano il protagonista, lo agiscono, qui si tratta di Amleto e Giovanna d’Arco bambini, giocando sullo scarto fra la realtà presente del ragazzino di dieci anni che sta in scena (che vuoi fare da grande?) e ciò che del personaggio è sedimentato nel nostro immaginario, col rischio di scivolare nella parodia. (C’è anche, a specchio, uno studio intitolato Be normal! in cui i due attori, Sara Bonaventura e Claudio Cirri, inscenano una quotidianità di precariato giovanile, ma la struttura del lavoro è ancora troppo esile perché il risultato sorpassi il divertimento fornito dalla loro indubbia bravura).
Mein Herz, mormora a un certo punto anche il protagonista di A.H., lo spettacolo con cui Antonio Latella apre una nuova fase di lavoro, con una nuova compagnia significativamente denominata Stabilemobile. Spettacolo che può facilmente dividere: si vuol dire che non tutti hanno condiviso l’insofferenza di chi scrive per la faticante prova d’attore, ché anzi molti applaudivano alla fine. L’attore, Francesco Manetti, si presenta in un candido abito di carta che si andrà sporcando e stracciando nel corso della lunga performance. Con tono didascalico si avventura sei sentieri della saggezza biblica. Disegna su un grande foglio la lettera ebraica beth, con quel punto nel mezzo che sembra il centro di gravità in cui si concentra la massa di un prossimo Big bang. Poi lo strappa, ne fa coriandoli che getta per aria. Con un ardito salto concettuale mette in relazione il dio della Torah con quell’altro innominabile e altrettanto unico, trasparente però nelle iniziali del titolo, mentre il braccio lentamente si alza in un meccanico saluto nazista. Si tratta infatti, nelle intenzioni, di una riflessione sul male, sul cancro che entrò nel cuore dell’Europa. E da lì in poi è tutto un urlare e sbattersi e rigurgitare parole smozzicate, un cospargersi di nutella e mimare in un interminabile loop il rumore delle armi, rifare Chaplin e dirigere un concerto di sirene, per finire in una apocalisse di talco…
Un mucchio di vecchie coperte e un proiettore luminoso, è tutto ciò che serve a Motus per precipitare lo spettatore Nella tempesta, proprio quella di Shakespeare e i suoi dintorni. Con le coperte costruiscono il profilo di un’isola, erigono torri, fanno mantelli, compongono la scritta «this island is mine». Nel fascio di luce che da un angolo del proscenio attraversa in diagonale lo spazio scenico un’attrice, Silvia Calderoni, presta il suo danzante corpo androgino alla più aerea delle figure scespiriane. Ariel ha preso il posto del Maestro assente, di cui resta solo quel muto simulacro luminoso, per ricomporre pezzi di memoria.

Qui si può fare qualsiasi cosa, dice. Ed è tutto un andare dentro e fuori e di traverso al testo, dalla Tempesta post-coloniale di Aimé Césaire a un Calibano albanese che racconta le sue peripezie di sans-papier, ben sapendo che fuori dalla finzione c’è un’altra finzione. Lo spettacolo è molto bello. E emoziona la voce di Judith Malina che ancora predica la necessità di un’esplosione. Forse per questo sembra ancor più inappropriato quel finale comunitario che convoca gli spettatori sul palco e riconsegna lo spettacolo a una precettistica che non merita.