Con la chiusura della pausa estiva si riaprono le porte del dialogo con i sindacati, ma per il momento sono arrivate solo brutte notizie: al tavolo sul pubblico impiego, ieri, si è scoperto che sì, il governo è pure disposto (finalmente, sono già passati otto anni dall’ultimo aumento) a rinnovare il contratto del pubblico impiego, ma con il piccolo particolare che si rischia di perdere gli 80 euro del «bonus Renzi».

Superata una certa soglia di reddito annuale, infatti – pari a 26 mila euro lordi – si perde diritto al bonus: si è calcolato che il problema potrebbe porsi per almeno 360 mila dipendenti pubblici. Il paradosso è che questi lavoratori, una volta acquisiti gli 85 euro lordi medi promessi dal governo nel protocollo siglato il 30 novembre scorso (pochi giorni prima del referendum costituzionale), perderebbero subito il diritto agli 80 euro netti. Entrano 85 euro lordi – pari a 60 netti – e escono 80 euro netti: un affarone, la busta paga potrebbe risultare addirittura in perdita.

I sindacati confederali ieri, dopo l’incontro con l’Aran, hanno chiarito subito che il problema va risolto: la Cgil, con il segretario confederale Franco Martini, chiede il «rispetto rigoroso dell’accordo del 30 novembre che ha previsto un incremento per tutti dipendenti pubblici non inferiore a 85 euro medi. Questo obiettivo – sottolinea la Cgil – non può essere intaccato dalla questione degli 80 euro, soprattutto non si può pensare di risolvere il tutto attraverso altre vie come, ad esempio, il welfare contrattuale».

Insomma, servono risorse fresche per coprire il mantenimento degli 80 euro, non bastano alchimie che rimandino al welfare contrattuale (tema sempre attuale nei rinnovi dopo lo spazio dato nell’ultimo accordo dei metalmeccanici). Vale la pena ricordare che quando – ai tempi «d’oro» di Renzi – vennero fuori gli 80 euro, la stessa ministra della Pubblica amministrazione Marianna Madia ipotizzò che il bonus potesse essere in qualche modo sostitutivo del rinnovo contrattuale, allora impossibile perché nel pieno del congelamento iniziato nel 2010 e via via rinnovato fino alla sentenza della Corte costituzionale (del 2015) che ha dichiarato illegittimo quel blocco. Ora che arriva l’aumento, dunque, possiamo cassare il bonus?

Sarebbe una vera beffa. Anche la Cisl, ieri, ha chiesto al tavolo che «la sterilizzazione dell’impatto degli aumenti sulla fruizione del bonus di 80 euro per i lavoratori del pubblico impiego debba essere assicurata con risorse aggiuntive stanziate nella legge di bilancio». Si parla di circa 125 milioni necessari a garantire il bonus.

La Uil, che per fugare tutti i dubbi chiede un incontro con la ministra Madia, afferma che «l’aumento economico deve essere di 85 euro e che il bonus degli 80 euro non può essere confuso con l’incremento salariale. Devono invece essere trovate soluzioni diverse, compresa la defiscalizzazione del salario di produttività».

E se il contratto del pubblico impiego sembra ancora in alto mare, non appare più roseo il panorama della previdenza: domani un nuovo incontro con i sindacati, proprio nei giorni in cui si moltiplicano le proposte sul tema. Il governo pare stia studiando un micro bonus (sui 40 euro) da concedere agli assegni più basse, si continua a lavorare sulla «pensione di garanzia» per i giovani, ma i sindacati chiedono di evitare l’adeguamento al rialzo dell’età di uscita. Punto su cui l’esecutivo fa muro.

Confermata l’idea di tagliare in manovra i contributi per i neo assunti under 29 (o 32), ma Carmelo Barbagallo (Uil) la boccia: «Non bastano misure a tempo, siano strutturali».