La cerimonia ufficiale dell’ultimo saluto ad Ariel Sharon e la sepoltura nel Neghev, davanti ai vertici di Israele e ai rappresentanti di vari Paesi, dell’ex premier morto sabato scorso, sono state segnate da due operazioni: la rimozione del passato scomodo (a dir poco) di un militare e uomo politico che ha compiuto azioni configurabili come crimini di guerra; l’esaltazione della presunta «svolta moderata» avvenuta negli ultimi anni di vita vera di Sharon, precedenti al coma profondo in cui l’ex premier finì nel 2006 in seguito a un ictus. La tesi dello Sharon pacifista è stata portata avanti dal vicepresidente Usa Joe Biden e, soprattutto, dall’ex premier britannico Tony Blair. «Quando si trattava di combattere (Sharon) ha combattuto. Quando si trattava di fare la pace, ha cercato di farla…ha creduto con forza che la pace non fosse un sogno», ha sostenuto Blair. Reticente sul torbido passato di Sharon anche la dichiarazione della viceministro degli esteri italiana Marta Dassù. «Ciò che adesso conta – ha detto – è l’eredità che ha lasciato con le sue ultime scelte, un’eredità basata sulla convinzione che la sicurezza di Israele sia legata alla prospettiva di due Stati in questa terra».

Che Sharon fosse diventato un sostenitore della soluzione dei «due Stati», Israele e Palestina, è da dimostrare. In realtà il falco della destra, spietato con palestinesi e arabi e fautore della colonizzazione sfrenata dei Territori occupati, come altri premier e ministri israeliani di ogni colore politico aveva preso atto che la rapida crescita demografica palestinese sotto occupazione avrebbe posto nel giro di pochi anni problemi enormi a Israele. Una constatazione che lo aveva portato non a riconoscere il diritto dei palestinesi alla libertà e all’indipendenza ma ad elaborare l’idea di un“disimpegno” unilaterale da Gaza e Cisgiordania. Un arretramento parziale dalle terre palestinesi deciso e attuato solo da Israele, senza alcuna intesa con l’Autorità Nazionale di Abu Mazen che nel frattempo aveva preso il posto di Yasser Arafat, morto nel novembre 2004 per una misteriosa malattia che i palestinesi attribuiscono a un “avvelenamento” avvenuto per ordine proprio dello stesso Sharon. Che la soluzione di Sharon puntasse al disimpegno unilaterale di Israele e non alla volontà di firmare un accordo di pace ampio, fondato sul diritto internazionale, con i palestinesi lo conferma, almeno in parte, un articolo pubblicato ieri dal quotidiano Haaretz che cita cablogrammi dell’ambasciata Usa a Tel Aviv al Dipartimento di Stato svelati da Wikileaks. Nel dicembre del 2004, riferiva il giornale, l’allora ambasciatore Usa a Tel Aviv Daniel Kurtzer scrisse all’Amministrazione Bush che Sharon non aveva intenzione di fermarsi al ritiro da Gaza ma intendeva compiere «passi di vasta portata» in Cisgiordania e a Gerusalemme. Kurtzer non fece riferimento a negoziati per creare uno Stato palestinese.

Nella beatificazione di Ariel Sharon alfiere della pace e della coesistenza pacifica, i coloni israeliani hanno dato, inconsapevolmente, un contributo decisivo manifestando il loro disprezzo per il premier che aveva ordinato di evacuare gli insediamenti ebraici costruiti nella Striscia di Gaza. In un seminario religioso, ad esempio, alcuni studenti non ha potuto nascondere la loro gioia per la morte di Sharon. «Abbiamo avuto un lungo e affascinante viaggio con lui nella lotta per creare insediamenti ma la ferita del disimpegno (da Gaza) continua a sanguinare », ha detto da parte sua Benny Katsover, un pioniere della colonizzazione. «La storia non dimenticherà i suoi crimini contro il popolo ebraico», ha detto un ex consigliere di Sharon, Yaakov Katz. Peggio ancora è stata la reazione di un altro colono Yehuda Glick che ha paragonato i sentimenti che prova per la morte di Sharon a quelli di «una ragazza che è stata violentata e alla quale chiedono di ricordare le buone azioni del suo violentatore».

Reazioni che aggiungono un mattone fondamentale per la revisione storica della figura di Sharon, volta a farne uomo politico saggio e moderato, separato totalmente dal comandante militare del massacro di Qibya e dal ministro della difesa coinvolto nella strage di 3 mila profughi palestinesi a Sabra e Shatila. Un leader “pragmatico” contrapposto al premier attuale Benyamin Netanyahu, impegnato in una corsa forsennata alla colonizzazione della Cisgiordania e di Gerusalemme Est. In questo processo i palestinesi e i loro diritti non hanno posto e ruolo, ci fanno capire Biden e Blair. Devono saper attendere che, come per Sharon, anche Netanyahu diventi “saggio e moderato” e proceda a un “disimpegno”. La legalità internazionale può attendere. «Le impronte (di Sharon) sono impresse in ogni valle e in ogni collina. Ha coltivato la terra con la falce e l’ha difesa con la spada», ha detto ieri presidente israeliano Shimon Peres. I palestinesi lo sanno, l’hanno provato sulla loro pelle.