Mentre le humanities italiche corrono veloci verso il tramonto, travolte nella scuola come nell’università dalla prevalenza del possesso misurabile (e monetizzabile), si moltiplicano i libri e i pensosi dibattiti a stampa (compresi i blog) sul problema della sopravvivenza scolastica delle lingue classiche. Dopo il latino «lingua inutile» di Nicola Gardini (Viva il latino. Storia e bellezza di una lingua inutile, Garzanti), e il greco addirittura «lingua geniale» di Andrea Marcolongo (La lingua geniale. 9 ragioni per amare il greco, Laterza), è la volta, ancora sul latino, di Ivano Dionigi: Il presente non basta La lezione del latino, Mondadori «Saggi», p. 112, € 16,00).
Sono tre lavori profondamente differenti: più interessato alla letteratura Gardini, più dedita alla grammatica Marcolongo. Dionigi si distingue per il modo in cui coniuga la solida scuola di Alfonso Traina, con l’attenzione verso i problemi dell’oggi e verso le esigenze comunicative. Nella convinzione che il dibattito sulle lingue classiche sia la forma nostrana della Querelle des anciens et des modernes, il libro delinea con mano sicura alcuni percorsi nella lingua e cultura latine, confutando diffusi pregiudizi e affermando invece i fatti: dall’importanza della «parola» alla ricchezza delle concezioni romane del tempo, dal pensiero della politica all’eredità del latino nella storia d’Europa. La sintesi è scorrevole, e la dottrina è sapientemente celata dietro un tono non intimidatorio. L’attenzione alla lingua e alla parola è sempre molto alta: il latino si comprende solo trattandolo «in latino», non attraverso pasticciate rimasticature. La passione d’autore per Lucrezio e Seneca, evidente e condivisibile, innerva le pagine più belle.
Dionigi rileva molto chiaramente che nell’Occidente travolto da una rivoluzione che lo vede «parte e non più protagonista» accanto ad altri attori emergenti, il posto del latino è a rischio, a meno che non si riesca a considerarlo ancora tra i puntelli del nostro confuso presente (il quale, come ammonisce il titolo, «non basta»). Un certo tono apologetico è perciò necessario: ma è altrettanto inevitabile pensare alle raffinate argomentazioni degli ultimi pagani, quelli che contro l’integralismo cristiano del quarto secolo tentavano di far presente che non vi era una sola strada per arrivare a comprendere, in quel caso, la divinità. Fu inutile, seppur nobile, il loro sforzo. E così, riconosciuto che quest’epoca è la nostra Tarda antichità, vigilia di capitali mutamenti, e riconosciuti al libro i suoi egregi meriti (non ultima la grande leggibilità), resta un interrogativo di base: a chi sono destinati, il libro di Dionigi e gli altri?
Una gelateria a Dresda
Piacerebbe che i lettori fossero quanti reggono le sorti della «Buona scuola», con le sue vision e mission (un poco di inglese è d’obbligo, nella modernità italica). Ma è noto che le urgenze ministeriali non discendono da sollecitazioni educative o culturali, ma sono variamente condizionate da astrusi e fumosi gerghi di pedagogisti (le «competenze»); da velleitari adeguamenti a «quel che ci chiede l’Europa» (l’alternanza scuola-lavoro); da diktat esterni (di volta in volta: ridurre l’orario scolastico, assumere i precari, etc.). Quindi loro non li leggeranno, i libri che spiegano perchè è importante tenersi caro il latino (e financo il greco, suvvia!).
Il rigetto dell’antico
Piacerebbe che i lettori fossero quanti verso le lingue antiche manifestano un rigetto totale, auspicando per i nostri studenti, secondo la fortunata formula di un bell’ingegno, «più mitocondri e meno aoristi passivi». Ma è noto che i dogmi costituiscono una verità assoluta e autodimostrata: e l’asserita inutilità formativa delle lingue classiche rientra in questa categoria. Né l’utilità dei mitocondri abbisogna di essere argomentata, del resto. Quanto più schietta, al confronto, la brutale chiarezza di una assessora alla cultura (e all’identità) di una regione de Nord-est! Quella che tempo fa esultò, perché finalmente nella «sua» regione gli iscritti agli istituti tecnici e professionali superavano quelli dei licei. Certo un traguardo da festeggiare, per chi ritiene che dell’identità, anzi delle raìxe, sia parte integrante prepararsi ad aprire l’ennesima gelateria San Marco o Venezia, a Dresda o a Tubinga, e che questo sia il destino più auspicabile per i virgulti padani. Quindi loro non li leggeranno, i libri che spiegano come mai il latino (e pure il greco!) meriti ancora un posto nel curricolo di un futuro cittadino.
Piacerebbe insomma che i lettori di libri come quello di Ivano Dionigi fossero coloro che al valore del latino (e del greco, certo) non credono. Si vorrebbe che le riflessioni pacate e fondate che esso propone servissero da «protrettico», e li esortassero a ripensare un moto distruttivo che appare inarrestabile. Ma c’è da dubitare che questo accada, e da temere invece, come certi indizi suggeriscono, che questi libri «parlino» a chi già crede al valore di una paideia fondata sullo studio delle lingue e delle culture classiche. Il rischio è che questi libri (averne avuti, quando si era studenti!) valgano da confortante rassicurazione identitaria per «quelli del classico», non già da strumento per ritrovare una perduta centralità. Lo stesso vale, a parte i proclami trionfali, per le «Notti bianche del liceo classico», che dopo il secondo anno di celebrazione sono già diventate «tradizione». Gli happening serali possono forse motivare quanti sono già stati attratti dal curricolo classico, ma difficilmente raggiungono, pur nello sforzo generoso degli organizzatori, un pubblico nuovo (o dovremmo dire, più modernamente: clientela?).