Le bandiere nere della jihad islamica sventolano sulla principale raffineria irachena. La battaglia per il controllo del paese si sposta nel più ovvio dei campi, quello energetico. La marcia su Baghdad sembra essere temporaneamente sospesa dai jihadisti, più interessati ora a garantirsi la vera fonte di ricchezza – e controllo – dell’Iraq.

Intorno alla raffineria di Banjij, tra Mosul e Tikrit (circondata dalle milizie dello Stato Islamico dell’Iraq e del Levante la scorsa settimana, evacuata dello staff pochi giorni fa e martedì occupata dagli islamisti) sono sorti i primi checkpoint posti dagli stessi miliziani. L’esercito iracheno è impegnato in duri scontri per la riconquista dell’impianto, fondamentale elemento strategico per il paese; secondo quanto dichiarato da Ali Al Qureshi, comandante responsabile della protezione della raffineria, le truppe hanno riassunto il controllo di Baiji. Ma le testimonianze raccolte tra la popolazione sono ben altre: l’immagine delle bandiere nere qaediste narrano una storia diversa, ancora il 60% della raffineria sarebbe nelle mani del Siil.

Baiji produce il 30% del greggio iracheno, la maggior parte del quale è utilizzato per il consumo interno delle città a nord. La perdita della raffineria non influirebbe sul fabbisogno delle comunità a sud e della capitale, ma fornirebbe ai jihadisti un potere economico e strategico illimitato e spendibile nella vicina Siria, a scapito sia del regime di Damasco che di quello che resta delle opposizioni moderate.

Un potere che si sta consolidando: a quasi due settimane dall’inizio dell’operazione del Siil, Baghdad non è riuscita a riconquistare che poche comunità, perdendone invece molte altre e il timore concreto è che l’avanzata islamista possa attirare ulteriori combattenti sunniti stranieri. Così, per evitare altre defezioni e attirare i civili nei ranghi delle forze di sicurezza, Maliki ha promesso uno stipendio di 470 euro ai combattenti volontari e di 330 per coloro che, pur non imbracciando le armi, aiuteranno il governo nell’organizzare la resistenza dei cittadini.

Sul fronte internazionale il presidente Obama compiva il passo che mancava all’intervento, seppur non ancora annunciato ufficialmente: ieri pomeriggio, parlando dalla Casa Bianca dopo le rinnovate richieste irachene, ha approvato il piano del Pentagono per l’invio di 300 consiglieri speciali che riorganizzino l’esercito iracheno, e – dopo aver paventato l’intenzione di bypassare il voto del Congresso sulla questione, ha reiterato l’opzione di bombardamenti con i droni.

«Nessuna truppa americana andrà a combattere di nuovo in Iraq. Gli Usa sono pronti a compiere precise azioni militari se e quando decideremo che la situazione sul terreno lo richiederà», ha detto aggiungendo che tratterà la questione con il Congresso e i leader iracheni con cui saranno costituiti centri di coordinamento congiunti.

Ad una “condizione”: che il premier iracheno Nouri al-Maliki si faccia da parte. Una richiesta vera e propria non è ancora stata formulata da Washington, ma le pressioni che Obama subisce da parte di repubblicani e Senato le riversa tutte sull’alleato.

Ad una “condizione”: che il premier iracheno Nouri al-Maliki si faccia da parte. Una richiesta vera e propria non è ancora stata formulata da Washington, ma le pressioni che Obama subisce da parte di repubblicani e Senato le riversa tutte sull’alleato.

«Tenteremo con forza di imporre al leader che verrà l’assoluta necessità di rigettare governi settari», ha specificato la portavoce della Casa Bianca, Jay Carney. Ovvero, che a guidare il paese ci sia Maliki o un altro, sarà essenziale un esecutivo di larghe intese, che coinvolga sunniti, sciiti e curdi. Come a dire, la colpa del caos iracheno pesa tutta sulle spalle di Maliki, premier corrotto e accentratore, ma in realtà mero prodotto delle politiche Usa nella regione.

Una simile visione – considerare il disordine iracheno un frutto delle politiche discriminatorie dell’esecutivo – è limitante e, quindi, fuorviante. Dietro, come ha tenuto a sottolineare lo stesso Maliki, c’è la mano del gran burattinaio saudita.

La reazione di un Maliki abbandonato è giunta subito: il suo portavoce ha precisato che il premier non intende lasciare la poltrona appena riconquistata con le elezioni. «L’Occidente dovrebbe sostenere le operazioni militari del governo contro il Siis, piuttosto che chiedere un cambio di esecutivo. Maliki non ha mai applicato tattiche settarie. Ora dobbiamo focalizzarsi su un’azione urgente – sostegno aereo, logistico, di intelligence – per sconfiggere i terroristi, pericolo reale per la stabilità dell’Iraq e della regione».

Per ora a rispondere alle chiamate di Baghdad sono Iran e Hezbollah: il presidente Rowhani si è detto pronto ad intervenire, mentre il leader del movimento libanese, Nasrallah, ha promesso un sacrificio da parte dei sui miliziani «cinque volte superiore a quello speso in Siria».

Ormai quei fronti, che la guerra civile siriana aveva già chiaramente contrapposto, si sono definitivamente schierati: da una parte le roccaforti sciite, Teheran e Hezbollah, dall’altra i paesi del Golfo forti dei loro petrodollari e delle milizie sunnite attive sul terreno. A pagarne le spese è il popolo iracheno. L’esodo continua: chi può raggiunge l’aeroporto di Baghdad e salta sul primo volo; chi non può permetterselo, fugge a piedi verso il Kurdistan.