Intervenendo al meeting di Rimini nell’estate 2017, il segretario generale della Nato Jens Stoltenberg ha ripetuto più volte che la Nato lavora per la pace e la stabilità. Una sfrontatezza pari all’impunità di cui godono l’organizzazione e, di fatto, i suoi membri. Già: a quale paese della Nato apparteneva il bombardiere che il 20 giugno 2011 a Sorman, in Libia, sterminò la famiglia di Khaled el Hamedi?

«LO SANNO SOLO L’ALLEANZA atlantica e il paese in questione, e non lo rivelano», risponde l’avvocato belga Jan Fermon che assiste el Hamedi. Dalle macerie furono estratti i corpi senza vita della moglie incinta, dei suoi bambini e di altri parenti e amici. Sette mesi – da marzo a settembre 2011 – durò in Libia l’operazione chiamata Protettore unificato, avviata grazie all’uso strategico di notizie false e in nome di una nuova e strumentale teoria internazionale: la Responsabilità di proteggere. L’azione congiunta della Nato dal cielo e dei «ribelli» suoi alleati sul campo provocò certamente migliaia di morti e feriti fra i civili. Si pensi all’assedio contro Sirte e Bani Walid, alla distruzione di Tawergha (città dei libici di origine africana, uccisi o deportati dagli armati di Misurata), ai lavoratori subsahariani svaniti nel nulla e a quelli ritrovati cadaveri nel gorgo razzista.

GIÀ NEL LUGLIO 2011, a guerra in corso, Tripoli aveva presentato un elenco con oltre mille nomi di vittime. Tutto rimasto da verificare, perché l’arrivo al potere dei «ribelli» sabotò i tentativi di body count a loro sfavorevoli.

I DANNI MATERIALI E MORALI subiti dalla quasi totalità delle vittime non avrebbe riconoscimento né risarcimenti neanche se la giustizia internazionale funzionasse anziché esonerare i potenti come fa. Ma almeno per alcuni episodi acclarati, le vie legali si possono tentare e così ha fatto Khaled el Hamedi fin dal 2012 – per ora senza successo. Ha anche creato l’Associazione vittime della Nato (www.anvwl.com). Ultima puntata della causa legale: il 23 novembre 2017 la Corte d’appello di Bruxelles (la Nato ha sede in Belgio) ha risposto negativamente al ricorso dell’avvocato Fermon: «L’immunità della Nato è stata confermata. Occasione perduta di un grande passo avanti nell’applicazione della normativa internazionale sui diritti umani e del diritto internazionale umanitario. Ma andremo avanti». A un marziano, l’immunità di un’organizzazione che bombarda e che quindi ha potere di vita e di morte in tutto il mondo potrebbe sembrare un po’ strana. Ma così decisero i suoi fondatori, con il trattato di Ottawa del 1951.

ALL’IMMUNITÀ si coniuga l’omertà, e l’avvocato non può quindi agire contro l’ignoto paese responsabile dell’operazione bombe su Sorman. Khaled si è appellato all’articolo 6 della Convenzione europea dei diritti umani che prevede per ogni cittadino il diritto di accedere a un tribunale. Un diritto però che può subire limitazioni e la Corte di appello lo ha ribadito.

MA NON SI SAREBBE POTUTA sollevare l’illegalità dell’intervento della Nato in Libia, andato ben oltre la pur dubbia risoluzione 1973 del Consiglio di sicurezza che restringeva il mandato alla protezione dei civili?

«Sì, risponde l’avvocato, ma si va sul politico ed è ancora più difficile. E poi, anche se la guerra fosse stata legale, il bombardamento deliberato di Sorman è comunque un crimine di guerra».
Dunque perché non interpellare il Tribunale penale internazionale (Tpi), per quanto notoriamente parziale? «La risoluzione 1970 del Consiglio di sicurezza, in effetti, formalmente affidava al Tpi tutti i crimini compiuti in Libia; ma è molto chiaro che si mirava solo a Gheddafi. E poi, il procuratore spesso non avvia nemmeno l’inchiesta. Ci sono pressioni fortissime ».

QUINDI KHALED forse adirà la Corte europea dei diritti umani; o riproverà con la giustizia belga. Finora sono stati tutti vani i tentativi di far processare i vincitori delle guerre di aggressione (il «crimine internazionale supremo» secondo la definizione data a Norimberga) quando condotte dall’Asse Nato-Golfo. Tutt’al più e non in molti casi sono stati previsti modici risarcimenti per le vittime «effetti collaterali » – in Iraq, Afghanistan, Pakistan.

Per questo, conclude l’avvocato Jan Fermon, «quella contro l’impunità è prima di tutto una lotta dei popoli. E’ politica, anche se poi va tradotta in principi giuridici».