Dice Nicola Alfiero, fondatore della comunità La Roccia, nel libro di testimonianze Per amore del mio popolo, edito dalla Pironti nel 1995 «Don Peppino Diana era una persona normale che ha vissuto la sua vita in modo del tutto normale. È stato in seminario, si è fatto prete all’età in cui era in grado di farlo, non ha seguito nessun percorso eccezionale. Peppe non era un prete da televisione. Fuori dalla norma era, forse, solo il suo entusiasmo».

E invece Don Diana, ucciso dalla camorra il 19 marzo 1994, ironia della sorte, sul piccolo schermo ci è finito davvero. In una fiction in due episodi – dal titolo Per amore del mio popoloDon Diana che Rai Uno trasmette stasera e domani alle 21.10, presentata in anteprima alla Camera dei Deputati, ispirata alla sua storia, prodotta da Raifiction per la regia di Antonio Frazzi (ha diretto nel 2006 il film tv su Falcone), protagonista nel ruolo del prete anti-camorra Alessandro Preziosi.

Va detto, si tratta di un racconto seriale diretto al pubblico di Raiuno con tutti i limiti del genere: un montaggio didascalico, la scansione degli eventi e le semplificazioni nella sceneggiatura, oltre al vizio tutto italiano di riproporre il solito giro di attori. Ma, rispetto alle produzioni medie, gli va riconosciuta una onestà di fondo, l’impegno del cast e un’interpretazione mai sopra le righe – soprattutto se si maneggia un tema così delicato – preferendo sottrarre piuttosto che aggiungere. Giannandrea Pecorelli, che ha prodotto per Aurora il film tv mette le mani avanti. «Il film non è un documentario, non ha la missione di rappresentare esattamente ciò che è avvenuto quanto il dovere di comunicare al maggiore numero di spettatori il senso di ciò che viene raccontato, senza tradire la realtà».

La storia è nota ma non troppo, perché la figura di Don Giuseppe Diana ha vissuto per anni dopo la morte in una sorta di cono d’ombra. Milita nell’Agesi dal 1978, nel marzo del 1982 dopo gli studi di teologia viene ordinato sacerdote e nel 1987 riceve la parrocchia di San Nicola e subito si trova al centro della lotta fra le due famiglie legate alla camorra, Esposito e i Capuano, in lotta per il controllo del territorio.

Nell’ottobre del 1991 firma un documento contro le infiltrazioni mafiose insieme ad altri preti della foranìa di Casal di Principe, si impegna nell’assistenza degli extracomunitari (nella fiction se ne parla, così come si sfiora il tema dei traffici di rifiuti tossici) e si scontra inevitabilmente con le gerarchie cattoliche. Una parte (volutamente?) trascurata, preferendo sottolineare il rapporto di complicità con il vescovo di Caserta, Raffaele Nogaro. Nel natale del 1991, dopo l’uccisione di uno dei suoi collaboratori più attivi, scrive il documento In nome del mio popolo che risuona nelle chiese di Casale la Notte di Natale, dove lancia precise accuse alla camorra, ovviamente, ma anche alla classe politica. «La Camorra riempie un vuoto di potere dello stato che nelle amministrazioni periferiche è caratterizzato da corruzione, lungaggini e favoritismi».

Lo riconosce Rosy Bindi, presidente della commissione antimafia, che a conclusione della proiezione sottolinea come: «La sottovalutazione della rimozione del fenomeno mafioso, ci ha impedito di agire» anche se «la legislazione antimafia italiana» è presa ad esempio dall’Ue. La commissione antimafia di questa legislatura, ha assicurato Bindi, «ha capito bene che il potere criminale mafioso si caratterizza per due aspetti: il rapporto con il potere politico e la ricerca continua del consenso sul territorio».

Su questo bisogna agire: «se dopo aver sottratto patrimoni alle mafie, la politica non è in grado di farlo fruttare, allora le mafie continueranno ad avere consenso sul territorio». Una battaglia che non è affatto vinta. A Casal di Principe – dove la fiction è stata girata – di camorra si parla, ma sottovoce: «Su quelle terre – spiega Raffaele Cantone, ex magistrato anticamorra e oggi indicato al governo come futuro capo dell’Agenzia anticorruzione – c’è un ingente quantità di beni confiscati alla criminalità organizzata, ma il non saper mettere a frutto dà l’immagine che le mafie siano più brave dello stato».