Relegato in una proiezione fuori concorso, The Owners di Adilkhan Yerzhakov avrebbe meritato di piu. Adilkhan Yerzhakov, di certo non un cineasta alle prime armi, avendo al suo attivo opere come l’interessante Realtors, mette in scena un conflitto articolato in maniera mai superficiale fra tre fratelli costretti a tornare al villaggio materno dove la madre ha lasciato loro una piccola casa nella quale vive da dieci anni un funzionario alcolizzato che non ha alcuna intenzione di restituirla ai legittimi proprietari, e il resto della comunità che dovrebbe accoglierli.

Come una variazione di Cane di paglia dove la casa diventa segno di un imperativo territoriale sempre più incerto ma non per questo meno esplosivo, Yerzhakov pone le basi per un conflitto acerrimo che progressivamente trasforma dall’interno osservando lo scontro che oppone i maschi con lo sguardo di una bambina che riprocessa la realtà sognandola come una fantasmagoria rock’n’roll pauperista degna dei Leningrad Cowboys.

Delineato il perimetro della guerra, Yerzhakov lo mette in crisi attraverso uno punto di vista alieno, quello della piccola Aliya che indossa infatti degli occhiali da sole dalla vistosa montatura gialla, che esorcizza il conflitto reinventandone lo spazio come se fosse il set di un musical. La potenza dello sguardo della piccola Aliya, che tenta di rifondare fantasticamente il reale, pone The Owners (traduzione letterale i proprietari, i possidenti) in comunicazione con le bambine di Alice Rohrwacher. Ed è questa fede nelle meraviglie del mondo a fare del film Adilkhan Yerzhakov un piccolo oggetto prezioso che nuota in un cinema etereo e aspro al tempo stesso, dove i miracoli e le piccole allucinazioni che ne derivano sorgono proprio dalle viscere della terra più inospitale.

E se Aliya e i suoi fratelli vogliono entrare in una casa, la licantropa Marie di When Animals Dream (Semaine) non desidera altro che uscire, varcare la soglia che la separa dal mondo. Diretto da Jonas Alexander Arnby, questo piccolo horror domestico e femminista sembra essere, con ogni evidenza, una sorta di risposta a distanza di qualche anno a Lasciami entrare di Tomas Alfredson. Il dispositivo, infatti, è il medesimo: verificare delle mitologie horror consolidate in un contesto a esse estraneo riprocessandole su scala ridotta. Interpretato da un perfetto Lars Mikkelsen (i fan di Sherlock lo conoscono bene) il film, anche se prevedibile nella sua scansione drammatica e non riuscendo mai del tutto ad allontanare il sospetto che si tratti di un’operazione pensata per i festival, non dispiace mai completamente, merito soprattutto dell’attenzione con la quale Arnby traccia un profilo di donna che paga sulla propria pelle ipocrisie, intolleranze e violenze di una microcomunità.