Già prima dei fatti di piazza Maidan l’Ucraina era un paese in gravi difficoltà. La cosa era dovuta, oltre che alle turbolenze politiche in atto da diversi anni, anche alla scarsa consistenza dell’economia e alla presenza di una burocrazia inefficiente e corrotta, alleata di alcuni oligarchi, i veri padroni del gioco.

Di fronte al rischio di un collasso, nel 2013 la Russia aveva concesso un prestito di 15 miliardi di dollari, di cui 3 miliardi, con scadenza dicembre 2015, erano stati subito versati all’Ucraina.
Poi è venuto il rovesciamento del regime. Le spese sostenute per la guerra con i separatisti, la scomparsa del principale mercato di sbocco, la perdita di un parte di territorio con le sue attività, hanno portato di nuovo il paese alla virtuale bancarotta. Non potendo ricorrere ora alla Russia e neanche alla Cina, che aveva anch’essa concesso rilevanti finanziamenti, il nuovo regime ha chiesto l’aiuto dell’Occidente.

La situazione finanziaria attuale del paese deve essere collegata al quadro più generale di una fuga dei depositi dalla banche, di un credit crunch generalizzato, di difficoltà crescenti con i fornitori stranieri, che chiedono ormai pagamenti in contanti per le loro merci, mentre le grandi imprese sono in parte indebitate in dollari, in un periodo in cui la valuta nazionale ha perso in sei mesi il 50% del suo valore.

Per quanto riguarda l’indebitamento pubblico, la sua incidenza sul pil era del 73% alla fine del 2014 e, secondo le stime del Fondo monetario internazionale, dovrebbe raggiungere il 94% nel 2015.

Comunque il Fondo, con una sollecitudine che non ha riscontro nel caso greco, ha subito trovato 17,5 miliardi di dollari da prestare al paese, a condizione che l’attuale debito pubblico sia tagliato di 15,3 miliardi entro la fine di giugno. Anche l’Unione Europea e gli Usa hanno promesso qualcosa. In questo momento il bond ucraino con scadenza 2017 si scambia sul mercato con uno sconto del 60% sul valore nominale, mentre i responsabili delle finanze valutano che le necessità del paese si aggirino intorno ai 50 miliardi di dollari.
I creditori sono molto riluttanti all’haircut; una parte dei titoli sono nelle mani di una finanziaria statunitense, la Franklin Templeton, che ha offerto una ristrutturazione delle scadenze, ma non è disposta ad un taglio del valore; poi c’è il credito russo e qui le cose si fanno ancora più gravi, perché certamente Putin, che possiede anche dei mezzi di convinzione persuasivi (il gas), non accetterà un taglio e un mancato pagamento per intero all’ingombrante vicino innescherebbe un default generale del paese. I legali sono al lavoro per trovare una via d’uscita.
Per quanto riguarda il debito dei grandi gruppi, è in atto una ristrutturazione silenziosa da diverso tempo.

Resta il fronte cinese: 3 miliardi di dollari di pagamenti arretrati garantiti a suo tempo dalla consegna di grano che non è stata però completata e ancora 3,6 miliardi per la costruzione di un impianto; le discussioni sono in corso. Una situazione apparentemente disperata.