Si prendano alcuni recenti titoli di libri sulla scuola, La fabbrica degli ignoranti. La disfatta della scuola italiana, Perle ai porci. Diario di un anno di cattedra. Da carogna, 5 in condotta. Tutto quello che bisogna sapere sul disastro della scuola, Nessuna scuola mi consola, li si shakeri a dovere e si avrà il cocktail mentale che oggi interpreta la scuola italiana. In sintesi: Io speriamo che me la cavo, ovvero come sbellicarsi dalle risa tra invettiva e sarcasmo. Prova a dire la supplente e avvamperanno molti occhi maschili, galvanizzati da una siliconata della trasmissione ciarpame condotta da Bonolis, mentre la generazione precedente rievocherà molti film del recente passato. Gloriosa serie di trash cinematografico che, ancora oggi, googlelizzati come siamo, se per caso digiti l’insegnante o la supplente te la trovi spiattellata e scaricabile da youtube.

Roberto Sandrucci (La scuola sotto il genere della commedia. Rappresentazioni della scuola pubblica italiana: studio su sette casi, Edizioni ETS, euro 12) ha chiaro in mente che la comicità cinica applicata alla scuola non è una pratica periferica o di sottobosco, bensì una vera strategia politica, una montatura che, non sapendo dare un senso ai processi educativi, li mette in caricatura. In questa grande operazione ci siamo un po’ tutti: i media, prima di tutto, molti insegnanti, disorientati e demoralizzati, politici e amministratori che della scuola spesso fanno terreno di scontro ideologico, la cosiddetta opinione pubblica che vagola tra indifferenza e astio.

Sandrucci prende spunto da un best seller di più di vent’anni fa, Io speriamo che me la cavo di Marcello D’Orta, oltre un milione di copie, traduzioni, messe in scena, due sequel. Un’orgia di bambinate che fanno ridere e commuovono. Nella realtà un collage di frasi accuratamente montate dal maestro D’Orta. L’esito finale è la scuola come luogo di spasso, i bambini gli sgarruppati nel fraseggio e nel pensiero e gli insegnanti spettatori del caos tragicomico.

Nei capitoli seguenti Sandrucci si dedica, con profondità e un certo sgomento, al primo libro «scolastico» di Paola Mastrocola, La scuola narrata al mio cane, a Nessuna scuola mi consola di Chiara Valerio, al telefilm I ragazzi della 3aC di Claudio Risi, ai due libri di Gianmario Perboni Perle ai porci e Perle, al film Classe mista 3aA di Federico Moccia, e, per finire molto in basso, a 5 in condotta di Mario Giordano.

L’autore considera non a torto la scuola sotto il genere della commedia come l’espediente per mettere Ko la scuola attraverso l’irrisione e il grottesco. Stiamo naturalmente parlando della scuola pubblica, perché quella privata sembra non a caso star fuori dalla scena. Quasi non si capacita, Sandrucci, della pochezza dei testi che esamina, della loro decostruzione plebea della scuola, pur non nascondendosi i buchi neri che la abitano, le sofferenze irrisolte che vi circolano, le inadempienze che spesso la caratterizzano. Proprio per questo non si accontenta della caricatura a presa rapida che viene pompata nell’immaginario dei lettori/spettatori e pretende, inutilmente, un’analisi della relazione educativa così come si è venuta costituendo e trasformando nella società italiana. Invece trova livore, sghignazzo e pubblica esecuzione dei nemici con la N maiuscola: il ’68, don Milani e Gianni Rodari. Per finire nella sarabanda in cui tutti si lagnano di una scuola che non è abbastanza adeguata ai tempi, che è troppo adeguata ai tempi, che non sa prendere iniziative, che prende troppe iniziative, che è distante dagli studenti, che è troppo vicina agli studenti, troppo moderna, troppo poco moderna, che dovrebbe essere più ordinata, ma anche più creativa, più severa e più comprensiva, che dovrebbe celebrare la cultura, senza strafare, perché con quella non si mangia, dare speranza e riscatto alle nuove generazioni, senza però creare troppe illusioni, infarcirsi di internet, ma con giudizio perché non si sa mai. E via così.

Pur nella severità del giudizio, Sandrucci, mentre, per esempio, analizza la pungente scrittura di Paola Mastrocola, si fa troppo buono e noi capiamo che vorrebbe averla alleata in un progetto di innovazione e avvaloramento della scuola. Ma di fronte a chi scrive, con finta ingenuità, «bisognerebbe insegnare e basta…» «una volta ci si laureava e basta..», si arrende, perché sa che nella scuola ci sono parecchie mastrocole rancorose che vorrebbero ripristinare un passato mai esistito in cui la professoressa possa finalmente decantare il suo amato Torquato Tasso ad una classe di adolescenti in estasi pronti l’indomani a ripetere in commossi accenti le parole pronunciate dalla cattedra.

Il problema vero è che ha ragione Berlusconi: nella scuola italiana ci sono ancora troppi comunisti, soprattutto comuniste, che non si arrendono alla mercificazione del sapere e all’aziendalismo burocratico, che sanno ascoltare gli allievi e perciò si fanno ascoltare, che hanno un’idea di cultura come crescita e promozione personale e collettiva, all’asilo nido come in terza liceo, che sanno conferire dignità anche a chi non l’abbia mai vissuta, che non si prostrano alle Goldman Sachs nostrane che spacciano rating meritocratici a più non posso sulle scuole di ogni ordine e grado, che sanno che ogni educazione non conformista è rottura di un ordine esistente. Per questo va forte la gogna, la discesa agli inferi della scuola e l’intimidazione diretta, se si tratta di espugnare questi ultimi fortini di resistenza comunistoide.

La pedagogia accademica sembra, con rare eccezioni, abbastanza estranea a questo conflitto presa com’è a parlare di se stessa e all’autopromozione per garantirsi un posto al sole tra le altre discipline. Le 160 pagine di Sandrucci aprono un capitolo molto interessante di pedagogia dagli occhi aperti tutta da inventare.
claunal@alice.it