«Quelli che stanno a guardare e non si oppongono e non parlano quando sono interrogati – afferma Padre Barry in uno dei monologhi più memorabili di Fronte del porto – sono colpevoli come il soldato che piantò la lancia nel costato di Gesù».
È opinione diffusa che con questo film del 1954 Elia Kazan abbia lasciato al pubblico la propria artistica arringa di difesa a seguito dello storico «tradimento» di cui si macchiò nel 1952, denunciando vari colleghi del mondo di Hollywood alla famigerata Commissione per le attività antiamericane del senatore Joseph McCarthy.

UN ATTO che, comprensibilmente, lo perseguitò per tutta la vita: alla consegna del premio Oscar alla carriera nel 1999, vari esponenti del mondo del cinema rifiutarono di unirsi agli applausi in segno di protesta. Cercare nei romanzi indizi biografici è spesso rischioso, se non addirittura fuorviante, ma è difficile non ripensare a questa storia leggendo Gli assassini (Centauria, trad. Ettore Capriolo, pp. 382, euro 18).
Ultimamente questa casa editrice sembra essersi esplicitamente dedicata alle opere statunitensi collegate a vario titolo all’Era dell’acquario e, dopo La stagione della strega di Leo Herlihy, un anti-romanzo hippie dedicato alla ricerca del padre in un’epoca simbolicamente dedita all’uccisione delle figure genitoriali, la controcultura statunitense degli anni Sessanta torna come co-protagonista in quest’opera, una delle rare prove da romanziere del regista.
Come in Fronte del porto, il fulcro della narrazione è un processo. Come nel romanzo di Herlihy, al centro della rappresentazione troviamo un dramma familiare immerso nel contesto dell’organico attacco alle strutture patriarcali di cui i giovani degli anni Sessanta furono promotori e protagonisti.
Il sergente dell’aeronautica Cesario Flores, chicano fanaticamente convertitosi all’American Way of Life, spara e uccide il compagno dell’adorata figlia Juana, un hippie senza scrupoli colpevole di aver corrotto la ragazza, allontanandola dalla famiglia. È lo scontro tra il sistema e i suoi contestatori, una battaglia che va ben oltre i limiti della piccola società di provincia orbitante attorno alla base aeronautica di Collins, New Mexico. Il processo diventa infatti il braccio di ferro tra il complesso di valori propagandato dalla retorica pubblica statunitense (ulteriormente esacerbata dal fatto che Flores appartiene all’esercito, simbolo inattaccabile del potere americano) e l’impeto dissacrante di cui sono portatori i giovani contestatori.

LA SAPIENZA di Kazan come regista è evidente anche nella sua tecnica narrativa, un montaggio serrato e perfettamente misurato sul ritmo dell’azione, accompagnato da una notevole cura per i dialoghi e da una costruzione del personaggio che molto deve all’essenzialità icastica richiesta dalla settima arte. Del resto, il regista fu tra i fondatori dell’Actors Studio di New York, e tra i maggiori sostenitori del method acting, tecnica che, da Konstantin Stanislavskij a Lee Strasberg, puntava a una comunicazione non-mediata e istintiva del complesso cinetico-emotivo incarnato dagli attori. Uno stilema che, ne Gli assassini, si ritrova traslato sulla pagina con notevole efficacia. Il pregio maggiore di questo romanzo sta infatti nella forza e nella naturalezza con cui presenta i propri protagonisti, che sono sempre convincenti, complessi e interamente umani nelle loro azioni non di rado distruttive.

LO SGUARDO di Kazan sulla storia è quindi articolato, ma nonostante ciò fondamentalmente ambiguo. È come se l’autore sospendesse coscientemente ogni giudizio critico sulla vicenda, lasciando al lettore il compito non facile di trovare il centro morale del romanzo. Cesario Flores è un assassino, ma anche l’esponente di una minoranza ghettizzata e strumentalizzata dalla spietata società bianca e protestante – posizione che non doveva essere estranea allo stesso Kazan, figlio di immigrati greci provenienti da Istanbul. Michael, giovane hippie comprensivo e idealista, sembra essere una delle poche voci libere nella polifonia del racconto, ma il narratore non può evitare di metterne in luce l’ottusa ingenuità nei confronti della macchina ideologica Usa.
Con il gusto del legal thriller, ulteriormente problematizzato da istanze sociali, etniche e culturali, il romanzo pone a conti fatti una domanda cruciale: chi ha premuto davvero quel grilletto? Ciascuno dei protagonisti è infatti l’ingranaggio perlopiù incosciente di un sistema tentacolare e impossibile da scardinare; vittima o carnefice, ma sostanzialmente priva di una vera e propria agentività.
Tutto sommato, e probabilmente al di fuori delle supposte intenzioni auto-assolutorie di Kazan, Gli assassini è, più di tutto, una riflessione sulla sistemica banalità del male aggiornata al crepuscolo dell’Era dell’acquario.