Se vi fu un secolo nel quale fiorirono gli eccentrici, questo cominciò intorno al 1810 coi primi scandali di Lord Byron e culminò al tempo delle pittoresche gazzarre surrealiste. In questo torno di anni sembrò che il celebre motto di Marziale si dovesse rovesciare in un Lasciva est nobis vita, pagina proba est: le amenità biografiche oltrepassarono largamente quelle romanzesche.

Robert de Montesquiou, ad esempio, che inspirò a Proust la figura del barone Charlus, lasciò pagine d’un fasto convenzionale ma la sua vita, in compenso, somigliò a quella di un principe delle Mille e una notte.

Nel suo appartamento in quai d’Orsay riuscì a dar vita a un nuovo stile, il liberty, fatto di mobili dalle gambe ondulate e di vetri traslucidi come uova di pesce. E cosa si dovrebbe dire di Ludwig II von Wittelsbach? In nessuna esistenza letteraria si trovò mai un quissimile di questo fiabesco eremita che disseminò la Baviera d’incoerenti costruzione suggeritegli dall’opera di Wagner e dalla sua personale fantasia d’esaltato ipocondriaco.

A queste galleria di eccentrici che scrissero pagine di vita più sapide d’un capitolo di romanzo potrebbe aggiungersi Oscar Kokoschka, al quale a un certo punto le donne vennero tanto a disgusto da decidere di fabbricarsene una che rispondesse interamente ai propri desideri. Codesta fantasia sembrerebbe rubata al celebre racconto Der Sandmann di E.T. A. Hoffmann, interpretato psicanaliticamente da Freud proprio l’anno seguente nel saggio Das Unheimliche (1919), ma il Coppeluis al quale Kokoschka rivolse la sua bizzarra richiesta si chiamava Hermine Moss ed era una semplice fabbricante di bambole e modista dalle cui vesti non sporgeva nessuna coda di satanasso.

La buona donna tentò, come meglio poteva, d’esaudire le stravaganti richieste del pittore fra le quali quella che le articolazioni della bambola fossero fabbricate in maniera tale che si potesse «godere quelle parti dove il grasso e i muscoli improvvisamente fanno luogo ai tendini, e dove l’osso affiora alla superficie, come la tibia».

Le lettere che Kokoschka inviò alla costruttrice di fantocci tra il 22 luglio 1918 e il 6 aprile 1919, accompagnate da scrupolose annotazioni e da accurati disegni anatomici, vengono a comporre uno fra i più folli epistolari dell’intera epoca.

La bambola avrebbe dovuto avere le fattezze di Alma Mahler, la Belle Dame sans Merci della stagione secessionista, il cui abbandono aveva terribilmente tribolato il povero pittore. Alla donna aveva dedicato nel 1914 alcuni ventagli, acquarellati con scene d’intenso erotismo.

Ora da quella stessa passione germogliava un pupazzo. Esso sarebbe dovuto essere grande al naturale e avere una bocca che si aprisse per mostrare la lingua e i denti. Le pieghe della pelle, la consistenza dei capelli, tutto era stato minuziosamente descritto.

Gli scrupoli realistici dell’artista non si peritavano di giungere sino alle parti più intime e segrete che sarebbero dovute essere «lussureggianti e villose altrimenti non sarebbe stata una donna ma un mostro».

Nessun filo o altro segno di sutura avrebbe, naturalmente, dovuto interrompere l’illusione che questo inerme ammasso d’ovatta, cotone, veli e piume fosse una donna di carne.

Quando Kokoschka aprì finalmente l’involto il suo disappunto fu indescrivibile: dal paziente lavoro della signora Moss era scaturito un coacervo mostruoso, più simile alla grottesca creatura immaginata da Mary Shelley che a una compagna ideale. La consorte non fu, tuttavia, immediatamente ripudiata, fu anzi accolta, vestita delle stoffe più ricercate, le venne concesso persino di andare in carrozza.

Come Pigmalione, anche Kokoschka tentò, attraverso l’arte, di dar vita a quel fagotto di stracci dalle sembianze umane. Secondo Hans Maria Wingler furono circa 160 i disegni realizzati dall’artista a questo scopo, anche se il tentativo più rilevante resta il quadro Donna in blu (1919), postremo sforzo del consorte d’animare, col tripudio del colore, quella su sposa bambola nata morta.

Die Puppe, 1919
Die Puppe, 1919

 

Cionondimeno, un giorno «tra i dileggi degli amici, resi arzilli dal vino, Kokoschka fu preso da un impeto di furore, afferrò il fantoccio, lo trascinò in giardino per esservi seppellito. Là, presso la vasca, un famoso quartetto suonò musica classica nella notte, sotto le magnolie fiorite, quasi come un requiem per la bambola condannata». La rabbia di Kokoschka ebbe qualcosa di fiabesco: fu un furore di re cornuto. Se si fosse trattato d’una donna vera, avremmo avuto una pagina degna della penna di uno Zola ma, non trattandosi che di un povero manichino, la fantasia corre piuttosto a un possibile racconto di Bruno Schulz.

L’epilogo, ad ogni modo, non fu meno grottesco. La bambola venne rinvenuta senza testa; quel che ne restava era lordo di vino al punto che i vicini pensarono ai resti d’un omicidio brutale. Si disse che il pittore aveva seviziato una donna e poi tentato di celarne il cadavere: il fantoccio che non aveva saputo dissimulare la vita, si riscattava ora con una impeccabile finzione di morte.

Vennero chiamate le guardie e l’equivoco fu infine chiarito.

Sebbene reale, quella di Kokoschka e della sua bambola è una storia tipicamente mitteleuropea. Per un verso rimanda alla tradizione ceca, praghese, gremita di stregoni, d’alchimisti, di arcifanfani, di demoni d’argilla e di marionette infatuate (una variante del mito del Golem in cui la leggenda ebraica si sovrappone alla favola di Pigmalione è nel romanzo Ganymedes di Jirí Karásek); ma per altro verso si lega alla cultura espressionista di quegli anni.

Per Mario Praz l’incontro tra il pittore e il manichino era come segnato in quel Kokoschka che «in lingua ceca è il nome d’una crocifera, la borsa di pastore, detta anche erba raperina; e chi sappia che Petruschka, il nome di Arlecchino e del teatro di marionette russo, vuol dire prezzemolo, potrebbe immaginarsi che anche Kokoschka sia una specie di burattino».

Ma nell’età di Freud fantocci e pupattoli avevano un significato meno innocente che non nell’epoca dei celebri automi di Vaucanson o del turco scacchista del barone Kempelen, dal cui caso E. A. Poe trasse l’ispirazione del suo racconto. È stato sempre Praz a notare come «il pittore sia stato un Pigmalione alla rovescia, il quale anziché desiderare che si animasse la statua in una creatura viva, volesse evitare ogni spiacevole reazione umana da parte della sua compagna metafisica». Egli avrebbe voluto una sposa senza istinti incontrollati, senza meschinità, senza rabbia, senza tutte quelle brutture che rendono sgradevole un essere umano: una creatura che fosse una docile immagine del suo ideale.

Nell’espressionismo il tema della bambola incantata si legò a quello del doppio, come già nell’opera di Hoffmann alla quale il motivo può farsi risalire.

Queste figure nascono come dalla proiezione fantastica del proprio Io sulle cose del mondo, le quali, all’approssimarsi d’un tale lume, tendono a deformarsi, quasi fossero costrutte di cera calda. In uno degli ultimi film girati da Ernst Lubitsch prima dell’esilio in America, Die Puppe (1919), il regista scherzò col motivo del giovane innamorato di un vezzoso ordigno meccanico: il giovane Lancelot, rifugiatosi in un convento per sottrarsi a un imeneo forzato dal quale lo respinge una morbosa timidezza verso le donne, accetta d’inscenare delle finte nozze con una bambola; ma l’automa si rompe, così da permettere alla vivace figlia del costruttore di sostituirsi a essa. Solo grazie a questa cabala il giovane potrà spezzare una volta per tutte quella solipsistica conchiglia in cui s’era rincantucciato il suo Io, come un crostaceo schivo.

Il film è un balletto aggraziato, che cela, sotto vernice d’arguzia, le angosce dell’epoca. A esorcizzare i demoni dell’inconscio e a rinchiuderli, come i mali di Pandora, nel vaso non era sufficiente il proverbiale Lubitsch touch.