Nel pieno della quarantena, una bambina si è presentata a un ospedale pediatrico rinomato, accompagnata da un’assistente sociale e con la sua valigetta in mano, per farsi ricoverare. Aveva contratto il Covid-19, con sintomi fortunatamente lievi, sua madre era in terapia intensiva per lo stesso motivo e non aveva altri parenti. Il personale dell’ospedale l’ha accolta con molto affetto e addolorata tenerezza.

Questa bambina che smarrita ma composta si è consegnata a un mondo di adulti sconosciuti, fidandosi della loro capacità e umanità, questa apertura di credito al futuro in un presente minaccioso e carico di incertezze, eppure non privo di figure solidali e affidabili, è l’immagine coinvolgente della forza, timida ma resistente dei bambini di fronte alle grandi disgrazie.

Questa forza è presente in tutti quando la nostra infanzia resiste dentro di noi, non corrotta dal sapere mistificante che omologa e conforma, e sa distinguere tra il bene e il male, tra ciò che è vivo è ciò che sa di morto, senza ingannare se stessa con la la necessità o farsi infinocchiare dai giri di parole.

Scrive Ginevra Bompiani nella bellissima favola che ha scritto per la bambina: «La felicità può essere veloce o lenta. Se è veloce, è anche irruenta, non guarda in faccia a nessuno, corre con gli occhi bendati, divora e rompe tutto quel che trova sul suo passaggio. Ma passa anche velocemente, anzi, corre tanto da non sapere nemmeno di essere una felicità. E’ solo una grande voglia. Se è lenta, invece, matura piano piano come un frutto, ti cade dolcemente in mano e poi si mette tranquilla al tuo fianco. Ma gli umani, molti di loro per lo meno, volevano la velocità. In fondo, questa era la cosa che volevano di più.

La felicità veloce, che corre e distrugge come un cavallo impazzito». Il desiderio che diventa voglia, brama divoratrice, che annienta il suo oggetto, senza aver avuto il tempo di goderne veramente e senza farlo persistere accanto a sé, fugge da se stesso, ha perso il proprio senso. Più corre, più i paesaggi scorrono e non riesce a vederli, guarda dritto nel nulla viaggiando, veloce e inerte, nel deserto. È diventato uno spettro. I bambini temono gli spettri: umani disincarnati -dissociati dalla loro infanzia e privi della sua linfa vitale- in cui non possono rispecchiarsi. Gli spettri sono alberi sradicati che vagano senza sosta, perduti nello spazio.

I bambini amano il gioco, sostano nel piacere dell’intesa, si fidano dei grandi che sanno giocare, che non hanno perso il gusto di essere stati piccoli. Amano la vita e il suo pulsare in loro e negli altri, la sentono nello sguardo, nel gesto e nel contatto fisico e allora si affidano, accolgono e si fanno accogliere.

Oggi la nostra infanzia, l’autenticità e la dignità dei sentimenti che le sono proprie, è la risorsa più preziosa nell’atmosfera da «fine impero» in cui viviamo. L’infanzia non cerca nei legami umani la ‘resilienza’, una qualità della materia inerte che mal si addice alla materia viva. Il materiale più resiliente è il muro di gomma: assorbe gli urti che riceve senza rompersi e senza subire deformazioni.

La resilienza è alla base della costruzione antisismica degli edifici, ma applicata alla materia umana dei desideri, dei sentimenti e dei pensieri, la rende gommosa e incapace di trasformazione. Ciò che torna sempre su se stesso imbarazza i bambini: sono frustrati quando la materia con cui si relazionano (la plastilina o i loro genitori) non è trasformabile, cioè insieme plasmabile e resistente.

Essi partono dal caos, il disordine creativo di una relazione con il mondo che non ha ancora un senso organizzato (la «mano materna della natura» disse Klee), per dare una forma personale a una materia capace di trasformarsi senza deformarsi. La bambina con la valigetta ci chiede di poter creare il suo posto nella vita, in un mondo umano resistente e non resiliente.