Un film girato col telefonino e con una piccola telecamera: ma non è questione di tecnologia, se non nel modo in cui Amore Carne ne modella le possibilità a un sentimento inquieto, e a una scommessa forse impossibile, che è cogliere l’imprevisto, e l’imprevedibile, le epifanie della vita, belle o brutte che siano poco importa. E allora questa storia di pazzi, passioni e malattia, incontri unici e preziosi, istanti che lasciano un segno racconta una vita, quella del suo autore, e infinite altre, e il gesto libero, potente, che è l’arte del vissuto, impastata all’esistenza: amore, carne.

Autore di teatro, e da qualche anno (lo lancia Io sono l’amore di Luca Guadagnino) attore di cinema (lo vuole anche Bertolucci in Io e te), Pippo Delbono è anche regista che ha trovato finora una sua dimensione nell’indipendenza della tecnologia, girando i suoi film (dal viaggio in Palestina di Guerra , al grido feroce de La paura), con il telefonino. Ed è una dimensione in cui la scelta del mezzo dichiara una corrispondenza poetica e politica con la materia del racconto. Non si potrebbero immaginare i suoi film, infatti, in altro modo, ingabbiati nelle ripetizioni di un set, o con una troupe pesante, perché proprio come avviene in scena, nelle sue immagini Delbono inietta il corpo, la voce, il tumulto dei pensieri e delle parole, la libertà di una trama narrativa e visuale che dichiara la un’idea di cinema forte e coerente.
Amore Carne, che arriva in sala grazie alla Tucker dopo le uscite sparse in diverse città italiane – Perugia, Mantova … – anche a Roma e a Milano (ha avuto la sua prima al festival di Venezia, sezione Orizzonti, due anni fa), è una ballata struggente e appassionata in cui il regista, alla prima persona, percorre luoghi e figure passate e presenti che sono pezzi importanti della sua esistenza. Con un andamento ondivago, come i pensieri che fuggono guardando fuori dalla finestra in una giornata di pioggia. Ma il suo non è uno sguardo compiaciuto, tentato dal narcisismo di chi si mette al centro; al contrario è quasi un training, una sorta di danza in cui le immagini mettono alla prova la propria natura, la materia del loro essere nell’incontro/scontro col mondo, la realtà, la sfera privata e quella collettiva.
Così si può sorridere condividendo lo spazio della malattia, l’Aids e i suoi controlli, forse perché come ci dice lui stesso, da molti anni un disagio all’occhio fa vedere a Delbono il mondo come se fosse immerso sotto l’acqua. E in questa dimensione straniata lo seguiamo tra Parigi, Budapest, infiniti chilometri in automobile e stanze d’albergo, punteggiati dalle riflessioni a voce alta, dai sorrisi degli amici, la dolcezza della complicità tra le persone con cui divide da anni il palcoscenico e gli affetti, Bobò e Pepe Robledo. Trasportati dalla musica di Alexander Balanescu, e dai passi impalpabili, sospesi tra sofferenza e respiro, di Marie Agnes Gilliot, la stella dell’Opera di Parigi …
Tutto comincia a Avignone, dove si ricorda Pina Bausch, di Delbono amica e maestra. Il tappeto di petali rossi, sparsi alla sua memoria, al regista forse per quel difetto della vista fanno venire in mente una tovaglia sulla tavola dell’anziana madre. L’ottica di questo straniamento può essere una lente sul mondo?
Rimbaud, Pasolini, T. S. Eliot, si alternano ai pensieri dell’autore, ai suoi ricordi, a quelle osservazioni di un quotidiano nel quale cogliere qualcos’altro. Delbono urla, sussurra, si lancia in un galoppo di parole, come un ragazzino che cerca di affrontare qualcosa di spaventoso., e che nel gioco o in una messinscena, rende commedia anche le cose più dolorose. L’autofinzione è quasi impudica, malinconica e insieme attraversata dall’umorismo; si parla di vita, dunque di morte, e come un mago shakespeariano Delbono rischia e osa, e la realtà è già divenuta narrazione.
La mamma non voleva che Pippo facesse teatro. Era meglio un lavoro più normale, sicuro. Glielo ripete ancora oggi ma d’improvviso il suono si inceppa e le immagini rimangono mute. Ci pensa la voce di Pippo a dirci ciò che manca, ma in forma di risposta, dicendo alla mamma che lei avrebbe voluto un figlio sottomesso alla religione, a quella presunta (appunto) normalità e lui era scappato via, lontano cercando qualcosa di diverso.

Altri incontri, Tilda Swinton, Marisa Berenson, Irène Jacon; figure, donne, speciali, ciascuna con qualcosa che non si può dimenticare. Il viaggio continua, movimento incessante nel tempo e nello spazio: il cinema, la vita, Non ci sono risposte e nemmeno certezze, Delbono ci cattura, ci fa ridere, piangere, depista le abitudini dei nostri sguardi. Ci interroga senza aggredirci, e interroga il suo mezzo, e la sua ricerca di artista.