È sera a Kowloon point, una delle estremità meridionali della Cina continentale. Tra ondate di riflessi attracca lo Star Ferry, con la sua insegna a stella di origine zoroastriana. Salgo sul molo a due piani costruito dagli Inglesi. Dal traghetto, voltandosi, si vedono ancora i bus double decker e la clock tower, altri frammenti del passato coloniale a cui alludono ingannevolmente i toponimi. Si attraversa il Victoria Harbour, il canale che divide la penisola di Kowloon dall’isola di Hong Kong.

Mentre il traghetto avanza oscilla lo skyline di grattacieli percorsi di vene di luce rossa e blu elettrico. In cima all’isola, sopra il distretto finanziario, sta il Victoria Peak, raggiungibile dal tram che risale gli oltre 500 metri su una pendenza impossibile, inghiottito dalla foresta tropicale. È come se spostandosi per la città, insieme allo spazio, cambiassero bruscamente le epoche. Hong Kong, schiacciata tra la Cina popolare e il Mar Cinese meridionale, sembra fatta di una sostanza discronica.

Lo status di eccezione di Hong Kong, in realtà, ha un inizio e una fine sul calendario. Nel 1997 la Gran Bretagna restituì la colonia alla Cina popolare, che si impegnò a mantenerne lo statuto speciale fino al 2047, garantendo libertà di espressione e elezioni democratiche secondo lo slogan «one country, two systems».

[do action=”citazione”]In realtà, mentre questa deadline si avvicina come un fronte d’onda, la pressione del governo sta già erodendo questi diritti. Ciò non ha privato Hong Kong della sua differenza culturale.[/do]

Ne è segno il fatto che qui, il 4 giugno, si celebra con una fiaccolata l’anniversario della repressione di Tiananmen, un evento che in Cina è cancellato dal discorso pubblico e censurato in rete. In questi giorni a Mongkok, a 15 miglia dal confine con la Cina, ha riaperto in un palazzo anonimo l’unico museo al mondo che ricorda il massacro del 1989, che è già stato oggetto di atti vandalici e picchetti minacciosi di gruppi nazionalisti.

La chiusura cognitiva imposta in Cina qui si lacera, emergono spiragli di memoria di un’epoca remota in cui qui Occidente e Cina s’incontrarono violentemente, dando vita a una città che orgogliosamente si sente distante da entrambe.

Prendendo strade parallele a Nathan Road, l’arteria principale che da Nord porta al mare, si costeggiano ancora i tipici edifici residenziali di Hong Kong: pilastri anneriti dall’umidità, alti fino a trenta piani, che accanto a ogni finestra hanno la scatola del condizionatore.

Per mesi qui il cielo è grigio cenere e carico di pioggia tropicale. Al riparo dei vicoli s’incastrano migliaia di negozi di spezie, ristorantini di noodle e ravioli, piccole librerie. Nei mercati diurni e notturni si trovano giada, radici medicinali, nidi d’uccello, frutti di mare secchi e varia chincaglieria che può nascondere interessanti documenti d’epoca coloniale. I wok friggono ininterrottamente. Le insegne lampeggianti di spicy crab e sex shop saturano lo spazio sovraffollato.

Verso la costa la città è stata ripulita per farne un’area turistica. Tsim Sha Tsui è un reticolo di pub e ristoranti di dim sum, che culmina nella nuova Promenade sul lungomare, dove la statua di Bruce Lee è stata recentemente spostata.

La musealizzazione della gloria culinaria e cinematografica di Hong Kong, tuttavia, non ha devitalizzato la città. Piuttosto, i nuovi flussi di visitatori dalla Cina popolare ormai dominano sulle figure isolate degli expats britannici, che per lo più sono andati via. Ciò spiega la luce malinconica, finanche funebre, che questo luogo edonistico assume nel romanzo di Lawrence Osborne La ballata di un piccolo giocatore (2014), il cui protagonista definisce i grattacieli «il profilo di cristallo del capitalismo che ci riempie di consolazione e di terrore».

Giunto a Hong Kong dopo aver perso tutto, ricercato in patria, l’espatriato di Osborne pensa di buttarsi in mare, ma infine resta paralizzato contemplando le immani costruzioni: «vidi i grattacieli di vetro e acciaio penetrare una cappa di foschia stazionaria, uno spettacolo wagneriano di puro orrore che travolse ogni mio futile pensiero».

L’altra faccia di questa elaborazione del lutto è quella edonistica dell’isola di Hong Kong, dove i contrasti aumentano. Cammino per la City finanziaria lungo Connaught road, passando sotto le pareti verticali ad alveare della Jardine House, la Bank of China col suo scheletro di luce celeste e gli oltre 400 m dello International Finance Centre con la sua vetta seghettata. Nelle pance dei palazzi si trova un sistema di gallerie coperte, accessibile direttamente dal molo, dove è possibile fare shopping per ore. Ci sono tutti i grandi brand internazionali. Gli orinatoi nei bagni sono in marmo nero con rivestimenti in radica di noce, l’aria fredda e asciutta profuma di sandalo.

Uscendo sulle strade si incontra il Man Mo temple, uno dei tanti templi dedicati alle divinità dei pescatori che vivevano originariamente in quella che era una sonnolenta appendice dell’Impero Ming. Allontanandosi dalla zona ipermoderna cammino per ore in senso orario. Gradualmente le case tornano umide, mangiate dalla vegetazione tropicale. Compaiono spiagge con l’avviso di fare attenzione agli squali, altri templi fumanti d’incenso, ristoranti con grosse vasche piene di gamberi mantide e aragoste che grattano il vetro.

C’è un’atmosfera carica e sonnolenta da sudest asiatico. Dopo il parco di Shek-o si arriva alla costa meridionale dell’isola, ad altri quartieri dal nome incongruamente britannico: Stanley, Aberdeen. Ha fatto buio e cade una pioggia leggera. Mi fermo al molo privato dove si prende la barca per il ristorante fluttuante Jumbo. Due lettere su cinque sono spente. Qualcuno ha improvvisato un barbecue in una casa di pescatori.

In una sala pubblica coperta dei vecchi signori stanno intorno ai tavoli di marmo di xiangqi, gli scacchi cinesi. Nel silenzio assoluto, ogni mossa è meditata a lungo. Siamo agli antipodi della frenesia che c’è tre chilometri a Nord e a quel senso di imminente scomparsa che il regista Wong Kar Wai ha messo in bocca a uno dei suoi personaggi in Hong Kong Express (1994): «In qualche modo ogni cosa ha una data di scadenza. Il pesce spada scade. Il ragù scade. Anche la pellicola trasparente scade. C’è qualcosa che nel mondo che non lo fa?»

Con i suoi 55 chilometri, Lo Hong Kong-Macau-Zuhai Brige è il più lungo ponte marittimo del mondo. Questo superlativo architettonico, che a tratti passa sotto terra per permettere l’ingresso ai transatlantici, mi porta a Macao. L’ex colonia portoghese è un’altra incrostazione di storia attaccata alla Cina popolare, che porta alla luce paradossi ancora maggiori. Tra le isole di Taipa e Colonane si trova la Cotai Strip, il più grande concentrato di casinò del mondo.

Ci si arriva percorrendo le vie della città vecchia, con i palazzi e le residenze private di mercati e funzionari della colonia portoghese fondata nel 1557. Qui si ha davvero l’impressione di essere in un incantevole centro storico europeo, se non fosse per i negozi con la carne essiccata dolce, i ristoranti con le pinne di squalo, e il gusto di mettere pupazzi, festoni e esibizioni di ciarpame fuori contesto all’ingresso di antichi palazzi appena ridipinti, che in pochi gesti dice tutto un diverso rapporto con la storia.

Uscendo dall’elegante rua de Regedor con i suoi palazzi bassi e giallini, l’impatto visivo con la striscia di Casino è violento, maggiore che a Las Vegas. Il Venetian con la sua laguna e il campanile, la torre Eiffel del Parisian e in fondo i minareti dorati del Galaxy sono sagome di pura luce, che come immagini oniriche si riflettono sulla palude ancora non bonificata di quest’isola artificiale. Un sistema di passeggiate sospese sorvola gli incroci stradali con taxi e navette che portano i turisti a giocare e fare shopping. Si tratta soprattutto di Cinesi, che superano il confine per venire in questa zona franca e tornare con le tasche vuote.

Mi aggiro all’interno della Venezia di cartapesta, iperrealistica finanche nella luce del finto cielo, tra negozi di grandi marche e turisti carichi di buste che scattano selfie e vanno in gondola sui canali azzurri come piscine. Qui si vende ogni tipo di merce pregiata, da collane di giada a orologi da 10000 dollari, e si possono gustare bistecche e ostriche importate da ogni parte del mondo. In chilometri di passeggiata non vedo un solo libro.

Prendo il bus per la penisola di Macau. È una delle aree più densamente popolate del pianeta, l’umidità si mescola al fumo delle auto, ma anche qui il reticolo urbanistico tipicamente asiatico è interrotto dall’impianto portoghese, in piazze ampie costruite intorno a chiese e palazzi.

La tensione tra passato e presente si consolida nel contrapporsi di due facciate. Da una parte c’è il grattacielo del Lisboa, il più vecchio casino di Macao, col suo profilo dorato di piume metalliche. Ci entro e mi aggiro tra i tavoli, osservando i giocatori inespressivi e gli spettatori sonnolenti che assistono alle grosse puntate di baccarat. A qualche centinaio di metri, arroccata su una collina che domina il Lisboa, si vede la Cattedrale di San Paolo. La facciata di quest’ultima è di un barocco monumentale, ispirata alla Chiesa del Gesù di Roma. I santi gesuiti vi sconfiggono il drago del peccato. Ma resta solo questa: una faccia senza corpo che inganna l’occhio come una quinta teatrale.

Anche qui ogni cosa ha una scadenza. Macao perderà lo statuto speciale un anno dopo Hong Kong. Precorro i tempi avviandomi alla frontiera. Qui i miei dollari di Hong Kong e le patache macanesi diventano carta senza valore. Senza visto non si entra.

Una telecamera m’inquadra il viso. Pochi metri e si riproduce uno scenario urbano simile al precedente, ma le insegne in caratteri latini sono quasi del tutto sparite, così come i turisti occidentali. La Cina è un mondo che basta a sé stesso.