Nel nostro immaginario una canzone è la colonna sonora di un film. Grazie ad essa le scene vengono enfatizzate, i momenti romantici possono essere amplificati fino alle lacrime, le scene di paura risultare più terrorizzanti. Per farla breve: una buona colonna sonora è l’ingrediente segreto capace di rendere un’ottima opera memorabile. Una canzone può inoltre essere inserita in un fumetto o in un videogioco e, anche in questo caso, è un trucco da prestigiatore per dare massima potenza alle immagini. Una delle pubblicazioni più note della casa editrice Sergio Bonelli, Mister No, per esempio, ha usato spesso la musica come colonna sonora: nel numero 14, Ombre nella notte, è un pezzo jazz, Basin Street Blues del favoloso trombonista e cantante Jack Teagarden, detto «Big T», ad echeggiare sulle rive del Rio Negro. Senza si sarebbe persa tutta l’incredibile malinconia che traspira nelle tavole in bianco e nero delle storie dell’antieroe Mister No, amico tra l’altro di un fittizio musicista, Dana Winter, pianista nero che incarna un’anima blues incline alla dolcezza e alla nostalgia.
Per andare più al nocciolo del problema, facciamoci però delle domande. Senza musica sarebbero state così strazianti le scene finali del massacro indiano de L’ultimo dei Mohicani di Michael Mann? Avremmo avuto la stessa identica sensazione varcando i corridoi della Spencer Mansion di Resident Evil senza l’inquietante commento di Masami Ueda? Probabilmente no anche se, come detto, la musica è solo uno dei tanti ingredienti di successo per la riuscita di un’opera. Facciamo un ulteriore passo ardito: e se la musica fosse il punto forte di un film, di un fumetto o di un videogioco? Se tutto partisse da una strofa, da un titolo, da un ritornello e intorno si creasse tutto un universo, persino la creazione di un personaggio? Tralasciando i musicarelli anni Sessanta italiani come i vari Gianni Morandi di Non son degno di te o i videogiochi ballerecci usa e getta come Spice World, esiste un mondo di prodotti, magari trasfigurati dalla titolazione italiana, che hanno come seme proprio una canzone. Eccone alcuni.

(GHOST) RIDERS IN THE SKY: A COWBOY LEGEND
Ghost Rider è uno dei fumetti più popolari della Marvel Comics, grazie anche ai due film con Nicolas Cage nei panni dell’eroe motociclista dalla testa di teschio fiammeggiante. Solo che la versione che tutti conosciamo di questo personaggio non è quella originale. Ghost Rider infatti non nasce come personaggio supereroistico degli anni Sessanta/Settanta, ma come cowboy mascherato di un fumetto western degli anni Quaranta dalle tinte fortemente horror. L’eroe principale della testata, lo U.S. Marshal Rex Fury, alias Calico Kid, sembra morire cadendo da un precipizio e al suo posto si materializza il misterioso pistolero fantasma Ghost Rider, assetato di giustizia e vendetta. Il fumetto purtroppo, anche se molto bello, chiuse i battenti presto a causa del Comics Code Authority che lo giudicò immorale per via delle forti tematiche pulp. Caduti i diritti d’autore sul nome, la Marvel Comics, anni dopo, riprese il personaggio modernizzandolo, eliminandone gli elementi horror e dando i natali e il successo al Johnny Blaze centauro che tutti conosciamo. L’originale Ghost Rider però non morì e, ribattezzato Phantom Rider, di tanto in tanto fece capolino (nelle sue sei incarnazioni) nelle storie de L’uomo ragno e company.
In pochi sanno però che il suo creatore, lo scrittore Ray Krank, per creare il personaggio si ispirò fortemente alla canzone (Ghost) Riders in the Sky: A Cowboy Legend, una canzone country-western scritta, nel 1948, dal cantautore americano, attore cinematografico e televisivo Stan Jones. La canzone racconta di un cowboy che guardando il cielo scorge una mandria di bovini dagli occhi rossi e dalle zampe d’acciaio, inseguita dagli spiriti di alcuni infernali pistoleri. Uno di questi lo avverte che, se non cambia i suoi modi, sarà condannato a unirsi a loro, per sempre «nella spasmodica ricerca di catturare il branco del Diavolo attraverso questi cieli infiniti». Niente vacche dagli occhi di brace per il nostro giustiziere fantasma, ma comunque una bella dose di piombo, belle donne e atmosfere pre Landsale che non sarebbero dispiaciute agli eroi disperati della musica country come quelli della struggente Streets of Laredo.

IL BOSS E IL BANDITO BAMBINO
«He was born a little baby on the Appalachian Trail/at six months old he’d done three months in jail/he robbed a bank in his diapers and little bare baby feet/ll he said was – Folks my name is Outlaw Pete/I’m Outlaw Pete, I’m Outlaw Pete, can you hear me?». Così inizia la canzone Outlaw Pete di Bruce Springsteen, ispirata alla colonna sonora di Ennio Morricone per C’era una volta il west, e prima traccia dell’album Working on a Dream del 2009. Protagonista è un bambino che rapina banche e le cui gesta fanno riflettere sul peccato, sul destino e sul libero arbitrio. Da quella canzone, 5 anni dopo, arriva in libreria (da noi per Mondadori) un fumetto scritto dal cantante e meravigliosamente illustrato da Frank Caruso. Springsteen a proposito del libro ha dichiarato: «Outlaw Pete è la storia di un uomo che cerca di sopravvivere e correre più velocemente dei propri peccati». Per Caruso il personaggio del baby rapinatore è paragonabile alle figure di Tom Sawyer, Huck Finn, Dorothy Gale e Braccio di Ferro: «Uno spaccato del folklore del nostro paese che si snoda nel tessuto dei grandi personaggi letterari statunitensi». Sotto la parvenza di un libro per bambini, Outlaw Pete è un testo che graffia, profondo, a tratti disilluso, una ballata malinconica e cinica come le migliori canzoni del Boss, quelle che parlano delle ferite pulsanti dell’America, delle sue guerre e i suoi figli mandati al macello come nella struggente The River.
Nel futuro del cantante Springsteen e del disegnatore Caruso, dopo il successo di quest’opera, ci sono in ballo vari progetti come la graphic novel Reno dalla canzone omonima del Boss presente in Devils and Dust del 2005, una tra le canzoni più dure dell’artista, soprattutto per il linguaggio forte. «Di sicuro – aveva dichiarato lo stesso Springsteen – non sarà stavolta una storia per bambini. È un libro illustrato, ma non esattamente un libro per ragazzi. Io credo fermamente però che i ragazzi siano più evoluti di quello che noi adulti crediamo». Fatto sta che, annunciato per maggio 2015, Reno si è perso nel nulla così come Queen of Supermarket, nel quale avrebbe dovuto fare il suo esordio un personaggio estremamente sexy, un mix tra Jessica Rabbit e Betty Boop.
Spostandoci in Italia invece troviamo un’opera molto interessante, un fumetto uscito per le Edizioni Arcana nel 2010 dal titolo Tiamottì – 11+1 canzoni d’amore a fumetti, realizzato da Francesco Ripoli, Alessandro Baronciani, Andrea Bruno, Mabel Morri e Marina Girardi sotto la supervisione di Andrea Provinciali. Il volume di ben 190 pagine riesce nell’impresa, non facile, di rendere interessante anche a livello narrativo, come fossero dei cortometraggi, illustrato a volte con tratto pittorico, altre volte stilizzato e schizofrenico, alcune tra le più belle canzoni d’amore italiane (Isy di Luigi Tenco, Ci sono molti modi degli Afterhours, La cura di Franco Battiato, Gianna di Rino Gaetano, Nuotando nell’aria dei Marlene Kuntz, Il cielo in una stanza di Gino Paoli, De Fonseca degli Offlaga Disco Pax, Se ti tagliassero a pezzetti di Fabrizio De André, L’odore delle rose dei Diaframma, L’incontro di Piero Ciampi e Annarella dei Cccp).

UMORI POLITICI
La storia bonus è la ristampa di Ti amo di Umberto Tozzi, storia pubblicata nella rivista Cannibale nel 1978, e realizzata da Stefano Tamburini e Tanino Liberatore. Tiamottì, opera piena di umori politici (Brigate rosse, il terrorismo, la guerra), non è una lettura per tutti, ma è comunque un fumetto profondo che riesce ad essere romantico senza scadere nel banale, capace di creare storie mature attraverso le note di canzoni conosciute o meno, una cosa non semplice soprattutto quando con Nuotando nell’aria dei Marlene Kuntz si affronta il tema di dio, dell’essere e della creazione. Come già detto, c’è stato un periodo dove le canzoni più orecchiabili diventavano film. Erano, di solito, pellicole di bassa lega, interpretate da star della musica che si improvvisano attori. In Italia abbiamo avuto il già citato Gianni Morandi, di solito diretto da Ettore Maria Fizzarotti in scalmana per la bella Laura Efrikian, ma anche gli 883, nell’incarnazione di Max Pezzali, in un film che sembrava un brutto videoclip, Rita Pavone diretta da un’acerba Lina Wertmüller in Rita la zanzara, Bobby Solo in Una lacrima sul viso sempre di Fizzarotti con la prezzemolina del musicarello Laura Efrikian, poi Mina, Teddy Reno, Tony Dallara, Nino D’Angelo e persino Albano e Romina. Insomma sembra che la consuetudine del cantante che, oltre al disco, faceva pure un film fosse un trend irrinunciabile per qualsiasi artista della musica, una moda triste che si protrasse fino ai primi anni Novanta per poi scomparire, fortunatamente, quasi del tutto. Questi musicarelli non erano neanche cinema bensì avanspettacolo, grazie al supporto di spalle comiche come Ciccio e Franco, erano film incapaci di reggersi da soli e poggiavano la loro forza solo sui tanti momenti musicali. Non che negli Stati Uniti se la passassero meglio con la maggior parte dei film di Elvis Presley, almeno finché Don Siegel non decise di dimostrare al mondo che sapeva recitare, con gli atroci vacanzieri musicali di Frankie Avalon o recentemente con Mariah Carey in penose performance recitative. C’è da dire che alcuni artisti però fecero nascere dalle loro canzoni dei film, se non capolavori, certamente interessanti.
Sia dato merito a Lucio Fulci, uno dei nostri registi horror più sottovalutati, di avere girato la commedia Uno strano tipo con Adriano Celentano e di essere riuscito a creare un buon film d’intrattenimento che, solo a occhio distratto, rientra nel genere musicarello. Uno strano tipo è anche il titolo della canzone inedita che il nostro Molleggiato, in versione Dottor Jeckill e Mr Hyde, canterà nel film insieme a hit come Pregherò, Stai lontana da me e Grazie prego scusi. A differenza dei vari Morandi movie, il film ha una sua compattezza, anticipa la vena surreale del Celentano pensiero e osa affrontare, seppur velatamente, temi non proprio facili, almeno nel cinema popolare anni Sessanta, come l’omosessualità. È anche il film che segna l’incontro con la futura moglie del cantante, Claudia Mori, e quindi imperdibile per i fan del Jerry Lewis italico.
Sempre negli anni Sessanta come non citare lo sfortunato Io ti amo di Antonio Margheriti, altro regista del fantastico, con Alberto Lupo (sua la canzone del titolo), innamorato di Dalida in una pellicola non disprezzabile, ma dal sapore forte di melò ottocentesco. Facciamo un salto negli anni Novanta e troviamo Laura non c’è di Antonio Bonifacio da una famosa hit di Nek. Anche qui storia originale che con la canzone c’entra poco o niente: un fumettista si innamora di una ragazza problematica che scoprirà essere (forse) un fantasma. Tra le star troviamo il Nicholas Rogers di Fantaghirò 3 e 4, idolo delle ragazzine dell’epoca, e la giovane Gigliola Aragozzini, morta purtroppo di leucemia tre anni dopo questo film, nel 2001. Laura non c’è comunque, malgrado la sua brutta fama, non è disprezzabile grazie a una buona regia e a un discreto ritmo.
Peggio va con Albakiara di Stefano Salvati dalla canzone Albachiara di Vasco Rossi, un pasticciaccio urlato ed eccessivamente forsennato dove l’unica cosa che si salva è la buona interpretazione di Raz Degan. Peccato che i dialoghi siano atroci e la storia, che si vorrebbe giovane, sia invece un concentrato di luoghi comuni. Il cinema non sembra andare molto d’accordo con il nostro Vasco: già nel 1988 Ciao ma’ di Giandomenico Curi, su sceneggiatura del tuttologo Roberto D’Agostino, non era stato di certo un capolavoro, una sorta de I ragazzi del muretto ante litteram mischiato con la peggiore comicità da Drive in. Di Vasco Rossi, della sua rabbia, del suo vivere la vita al massimo non filtrava da questo film nulla, un insulto sia per i fan del Blasco che per la musica in generale.

UN AMORE IMPOSSIBILE
Uno tra i più bei film nati da una canzone però è Crying Game, da noi uscito come La moglie del soldato, ispirato ad una cover di Boy George dell’omonima hit di Dave Berry del 1964. Il film, girato dal regista Neil Jordan, è un’opera romantica e disperata che racconta l’amore impossibile tra un uomo, un terrorista dell’Ira, e la moglie di un suo prigioniero, una parrucchiera. Al di là del colpo di scena transgender sull’identità di un personaggio, La moglie del soldato è un capolavoro a tutto tondo capace di emozionare come poche altre pellicole, capace di affrontare con delicatezza il tema dell’abbandono, dell’inadeguatezza, ma non disdegnando le sterzate crudeli della sceneggiatura e le sue morti tragiche e improvvise. Crying Game viene cantata all’interno di un locale dall’attore Jaye Davidson in uno dei momenti più alti di tutto il cinema queer.
Altra canzone, altro capolavoro. As Tears Go By, è un brano musicale scritto da Mick Jagger e Keith Richards dei Rolling Stones e dal loro manager Andrew Loog Oldham. Da questa melodia il regista Wong Kar Wai gira il suo As Tears Go By, omaggio alla canzone degli Stones, e prima opera di un autore tra i migliori del cinema mondiale. In questo primo film sono già riconoscibili tutti i temi cari al Wong Kar Wai, autore di capolavori come Hong Kong Express, Ashes of Time o Angeli perduti: l’ossessione per il tempo, la depersonalizzazione degli individui in città che assomigliano a gabbie per animali e l’esplosione di sentimenti forti e urlati.

VERSO HONG KONG
In As Tears Go By c’è ancora il retaggio di un cinema come quello di Hong Kong degli anni Novanta, incerto tra Occidente e Oriente, dove le tradizioni popolari dell’ex colonia inglese si mischiano alle icone pop della cultura americana, dove i personaggi sembrano essere all’interno di una bolla di sapone incapaci di comunicare tra di loro. In questo film esplosivo, una storia d’amore in pieno cortocircuito gangster alla Main Street, la canzone che più resta nella testa non è quella degli Stones ma la cover di Take My Breath Away, colonna sonora di Top Gun, nella scena più struggente della pellicola: in un ralenti esasperato ed irreale si assiste a un addio che finisce con un bacio tra i più appassionati mai visti in un film. Andy Lau e Meggie Cheung sono i perfetti protagonisti di un melò crime che non è un capolavoro solo perché il regista è stato così bravo da girare in seguito film ancora più emozionanti e poetici.
Questi i titoli che abbiamo scelto nella nostra personale classifica in un genere non genere stando naturalmente ben attenti a citare soltanto quelle opere che sono riuscite ad avere una propria personalità, una loro originalità, davanti a canzoni famose che dovevano essere l’unico motivo di interesse per portare il pubblico in sala. Certo da questa lista, come sempre capita, mancano interi filoni, come quello dei videogame, ma siamo certi che siano stati davvero rari i casi di opere videoludiche dove una canzone ha generato un’opera degna di nota, se si esclude il magnifico Killer Is Dead dei Suda 51 nato da un brano degli Smiths, The Queen Is Dead.
Tra i grandi esclusi qualcuno potrebbe lagnare l’assenza di Amarsi (When a Man Loves a Woman), film del 1994 diretto da Luis Mandoki, dall’omonima canzone di Calvin Lewis e Andrew Wright, opera interessante ma discontinua che all’epoca sconvolse i fan dell’attrice Meg Ryan perchè, dietro un titolo romantico, si celava una storia abbastanza triste di alcolismo. Anche Pistole sporche, misconosciuto e interessante actionmovie diretto con nerbo da Albert Pyun, ispirato non a una canzone ma in generale ai ritmi mambo, è un bell’esperimento di film ammazzatutti girato come un musical al testosterone. Questo è sicuramente un sottogenere interessante che speriamo vi abbia incuriosito anche perché ora lo sapete: dietro a una grande canzone può germogliare anche un ottimo film.