È bello nel pomeriggio di una Croisette affollata immergersi tra le visioni e i viaggi VR di Laurie Anderson e Hsin-Chien Huang installati nel Suquet des artistes per la mostra Go Where You Look! inaugurata ieri, nel programma della Quinzaine des Realisateurs. Le persone pazientano distese sui cuscini di una saletta relax in attesa del loro turno, a un certo punto, un po’ nascosta da un cappello, compare anche lei Laurie Anderson, che discretamente, senza farsi notare, attraversa leggera il corridoio sbirciando nelle porte dove coi caschi della realtà virtuale le persone stanno scoprendo il suo universo.
Go Where You Look fa pensare anche al cinema, alla potenza dello sguardo, alla sua capacità di inventare mondi, di allargare gli orizzonti della conoscenza, della realtà, del possibile.Si vola, sospesi nel vuoto, lievi nello spazio che sembra spalancarsi sotto ai nostri piedi senza farci precipitare, galleggiando nell’aria. «La VR è una forma di apprendistato. Più se ne vede più si progredisce nel suo uso. Chi si trova a proprio agio nella VR sono di solito i ragazzi più giovani, i bambini di dieci anni che sono abituati ai giochi video.Mi piace creare VR per un pubblico giovane senza però utilizzare la violenza o la competizione, preferisco il sogno, l’immaginazione, il volo» dice Laurie Anderson.

Tilda Swinton

TRE LE INSTALLAZIONI, Aloft la prima che i due artisti hanno realizzato, in cui ci si ritrova su un aereo che all’improvviso si scompone per farci fluttuare tra paesaggi astratti. Alcuni oggetti appaiono all’improvviso, si possono afferrare, ciascuno di loro narra un’esperienza, mentre una vecchia macchina da scrivere libera parole nell’aria…
To the Moon, ci porta invece sulla luna, tra le bandiere americane e sovietiche e le figure della mitologia greca. Sul dorso di un animale che somiglia a un asino – un asino lunare? – attraversiamo la soffice sabbia della luna, i sogni e le fantasie degli uomini, qualcosa che ci guida e ci separa dal peso specifico del nostro corpo. Siamo astronauti? O folli amanti in cerca di un cuore, di un cervello, di un linguaggio? Un lago in Aloft, un’acqua infinita. Si parla di anime – come anche in Chalkroom presentato alla Mostra di Venezia nella VR – la voce di Laurie Anderson ci dà istruzioni e ci racconta storie, , un Buddha ci accoglie a fior d’acqua specchio di una ricerca interiore verso la pace. Per una coincidenza – ma esistono davvero? – Laurie Anderson incontra sulla Croisette Jim Jarmusch, il cui nuovo film, The Dead don’t Die – I morti non muoiono – dopo una piuttosto terribile cerimonia inaugurale nel segno di una vagamente inutile esaltazione della sala cinematografica (se voleva essere un attacco a Netflix direi che appariva fallimentare) ha aperto ieri il Festival di Cannes numero 72, ambienti e sensibilità artistiche affini.
The Dead don’t Die parla di zombie, gli zombie che siamo noi, che affollano il nostro tempo, l’America di Trump e l’Europa dei governanti alla Macron (o dei nostri)?, la realtà dei confini, dei muri, tra persone e tra ricchezze, nell’organizzazione gerarchica del mondo. Gli zombie sono gli esclusi, quelli messi ai margini – così nelle parole di Tilda Swinton – ai quali resta solo la fame. E siamo pure noi, critici e giornalisti in questo Festival dove, forse per la prima volta nella storia, un festival si arroga il diritto di proiezioni «segrete» riservate solo a alcuni critici e testate (a discrezione del festival stesso) impedendo di fatto agli altri di lavorare e penalizzando soprattutto chi è meno protetto, free lance in testa.

IL FILM di Jarmusch ha il ritmo di una ballata dal sapore vintage – il titolo viene dalla canzone di Sturgill Simpson, chitarrista amatissimo dal regista americano – risuona spesso nelle macchine d’epoca di ragazzini hipster di città e nella radio della polizia di Centerville con al comando lo sbadato capitano Cliff Robertson (Bill Murray), e due ragazzi, uno un po’ modaiolo con smart Ronnie Peterson (Adam Driver) e Mindy Morrison con occhiali e ipersensibilità (Chloe Sevigny). Il tempo si è fermato, gli orologi sono impazziti, gli animali domestici sono scomparsi e così gli uccelli e le mucche. Cosa accade in quel «grazioso posto» cittadina americana di vaccari ultraconservatori trumpisti che ostentano sul cappellino lo slogan « Rendi l’America bianca», figure eccentriche come la direttrice delle pompe funebri (Tilda Swinton), in cui tutti si conoscono e recitano una parte nella trama della vita collettiva?

LA TERRA è impazzita, uscita dal suo asse, come in uno dei film amati dal nerd della stazione di servizio ipercinefilo amante della serie Z arrivano gli zombie. E hanno fame, tanta fame. La metafora, o piuttosto l’allegoria, è abbastanza esplicita ma non siamo in La notte dei morti viventi, con la sua inquietudine di rivolta e la sua feroce lucidità politica. Il genere per Jarmusch è una scala di accordi più dilatata, che sceglie di percorrere tra infinite citazioni, quel patrimonio di letture e immagini caro ai due protagonisti di Only Lovers Left Alive, molti rimandi al cinema, e molti degli attori amici, quella «famiglia» cinematografica che insieme a Sara Driver, terribile zombie in duetto con Iggy Pop, compone il suo paesaggio dell’immaginario.