Il segretario-reggente del Pd ieri mattina si è presentato davanti ai cronisti e ha recitato il vademecum impostato da Renzi all’indomani del voto del 4 marzo. Così, a un mese di distanza, giunti a conclusione del primo giro di consultazioni al Quirinale, il serioso Martina ha inaugurato la passerella delle delegazioni dei partiti.

Per ribadire quanto segue: il voto degli italiani ci ha mandato all’opposizione (naturalmente «costruttiva» come vuole la tradizione). Salvo, subito dopo, rivendicare, dall’opposizione, tutte le scelte (anche le più nefaste) dell’incompreso governo battuto dal voto. Quindi viva la politica sull’immigrazione (Minniti); viva le scelte sulla precarietà (Poletti e Renzi); viva la linea europeista (Macron); viva la strategia economica (il debito pubblico che si gonfia).

La botta elettorale in realtà non pare aver spostato di un millimetro il partito di Renzi che non sembra interpretare l’opposizione per un bagno di umiltà e di riflessione critica. Tutto il contrario. Conclusione: chi ha vinto le elezioni faccia il governo, noi stiamo sulla riva dell’Arno.

Esce di scena il Pd e il microfono passa al signor 15 per cento con i panni di Berlusconi Silvio. Mentre lui, al Quirinale, indossa la giacca del politico, le sue aziende sono al centro di benefiche cure ricostituenti. Grandi giri finanziari, compra-vendite importanti che vedono mister conflitto di interessi in prima fila.

L’accordo Mediaset-Sky raggiunto con reciproca soddisfazione, e il rivale in Telecom, Vivendi, messo fuori dai giochi grazie all’iniziativa di Cassa Depositi e Prestiti che ne ha arginato il potere. Il Cavaliere (benemerenza che non gli è stata revocata neppure dopo la condanna definitiva) ha quindi preso il microfono per farci sapere di aver rappresentato al capo dello stato la sua idea di governo.

Vorrebbe Salvini, o meglio, «un leghista», come presidente del consiglio. E, rispetto alle alleanze, Forza Italia non siglerà mai intese o accordi con chi semina «l’odio sociale, il pauperismo e il giustizialismo». Dunque 5Stelle vade retro.

In perfetta sintonia con quel che poco dopo, reciprocamente, dirà Di Maio, l’ultimo ospite ricevuto da Sergio Mattarella.

Il partito di maggioranza relativa mette il suo 32% al centro della partita per un governo, che innanzitutto poggerà sulla gamba di una politica estera fedele «allo schieramento occidentale, all’Unione europea e all’unione monetaria». Non sappiamo se Di Maio è arrivato a citare De Gasperi di fronte a Mattarella, ma questo è un dettaglio.

O con la Lega o con il Pd, è il mantra del capo politico dei 5Stelle. «Non dico centrodestra perché non lo riconosco come coalizione». E «non voglio spaccare il Pd».

Dunque fuori dai giochi Forza Italia e, invece, avanti tutta un accordo da incardinare con il metodo tedesco della piattaforma programmatica tra i contraenti, dettagliato nei contenuti e nei tempi di attuazione. Quasi l’uovo di colombo. Salvo che poi, sui temi, tutto finisce in una generica lista della spesa.

Allo stato dell’arte l’unico straccio di un metodo per arrivare a una trattativa dai confini tracciati da una legge elettorale proporzionale che ci ha proiettato in uno scenario nuovo e complicato. Altrimenti, se continua la babele, si torna alle urne.

A offrire un mezzo sì a mister 32% resta solo Salvini. La natura di queste profferte leghiste ai pentastellati, tuttavia, non è chiarissima visto che, con buona pace Di Maio, Salvini snocciola gli slogan elettorali e sventola la bandiera lepenista, calcando l’accento sulla grande sintonia della destra fascio-leghista nostrana per i partiti-fratelli dell’Est, declamata dal capo leghista.

Che sicuramente non avrà citato De Gasperi.

Come ampiamente previsto è tutto rinviato alla prossima settimana perché, spiega Mattarella «a oggi non si registra nessuna possibilità per fare il nuovo governo». La pagina bianca, scritta dal voto, per il momento resta immacolata.