Inchieste giudiziarie e rivelazioni giornalistiche stanno svelando, anche a chi a suo tempo per interesse o quieto vivere lo aveva ignorato, il volto del renzismo. Ne esce rafforzato il ritratto di un leader e di un intero gruppo dirigente caratterizzati da una modalità di gestione del potere quanto meno spregiudicata, e da una rete di relazioni, anche internazionali, non certo all’insegna del progressismo.

Contemporaneamente, tra i reduci e i testimoni di quella stagione, si sta sviluppando un dibattito su come sia stato possibile che personaggi simili abbiano egemonizzato la sinistra italiana per un buon lustro. Si tratta di un dibattito il cui interesse travalica i circuiti ristretti dei gruppi dirigenti, poiché tra le righe è implicito un giudizio sulla natura del principale partito della sinistra italiana.

Ci si interroga dunque su quale sia la relazione tra il renzismo e la storia della sinistra italiana post-’89, e, un po’ sulla falsariga delle riflessioni del secondo dopoguerra a proposito della relazione tra il fascismo e la storia complessiva del paese, si scontrano due ipotesi, quella della «continuità» e quella della «parentesi».

Secondo la tesi della «continuità», il renzismo rappresenterebbe il frutto naturale delle scelte operate dal gruppo dirigente post-comunista a partire dalla Bolognina. Avendo quel gruppo dirigente optato per la liquidazione del patrimonio comunista, e abbracciato il paradigma neoliberale, non si comprende lo stupore per la scalata del partito da parte di un leader e di un gruppo dirigente pienamente coerenti con quelle scelte di fondo.
D’altro canto, la tesi del renzismo come «parentesi» vede nella scalata del rignanese e dei suoi accoliti un’appropriazione indebita, da parte di un gruppo di lestofanti, grazie ad ingenti ed interessati aiuti esterni (gruppi editoriali e finanziari), di una struttura altrimenti sana e virtuosa.

Pur riconoscendo elementi di validità in entrambe le letture, si vuole qui avanzare un terzo punto di vista. Le due ipotesi precedenti analizzano le vicende del Pd come quelle di un normale partito novecentesco, teso cioè alla rappresentanza di parti di società civile ed interessi materiali e/o ideali vis-à-vis lo Stato. L’ipotesi della continuità del renzismo parte dal presupposto che ormai il Pd rappresenti «il capitale» e quindi, lo guidi chi lo guidi, ormai è perso alla «vera» sinistra. L’ipotesi della «parentesi» parte invece dal presupposto che il Pd rimanga un partito di sinistra, espressione quindi delle classi popolari, temporaneamente traviato dal renzismo.

Un’ipotesi totalmente alternativa potrebbe invece partire dall’analisi del Pd non in quanto Partito, ma in quanto apparato dello Stato. Un’organizzazione cioè che non può vivere senza intrecciare un rapporto di tipo parassitario con lo Stato, e che con lo Stato ha instaurato una stretta relazione biunivoca. Infatti i parassiti non sfruttano soltanto, ma forniscono anche servizi al corpo che li ospita; in questo caso: personale politico addestrato, «credibile» nel garantire la continuità istituzionale ed i vincoli esterni, europei ed atlantici, della Repubblica, continuamente minacciati dai «populismi». Non a caso da anni ormai il Pd ha come principale ragione sociale quella di essere determinante nell’elezione del Presidente della repubblica, cioè del garante formale di quella continuità e di quei vincoli.

Quindi, siccome un partito per entrare in un rapporto di tipo parassitario con lo Stato deve vincere le elezioni, il problema che ciclicamente si pone è quello di trovare una leadership adatta a questa unica finalità. In quel periodo, sondaggi alla mano, chi faceva vincere il Pd, cioè chi forniva la garanzia del perpetrarsi del rapporto parassitario con lo Stato, era Matteo Renzi. Se questa caratteristica che abbiamo definito parassitaria perdura, è possibile che un domani potrà venire un gruppo dirigente migliore o peggiore di quello renziano, purché prometta di farsi garante di questo rapporto.

Del resto i quadri intermedi (non a caso, per la quasi totalità, personale eletto a cariche più o meno remunerate, che puntano alla rielezione come fine dell’azione politica) non furono renziani prima di Renzi, divennero poi renziani ed al momento non lo sono più. Il Pd, in condizioni diverse, mira insomma ad ereditare la funzione di Partito-Stato che fu della Dc.

Con una fondamentale differenza (che fa rientrare dalla finestra l’ipotesi detta sopra della «continuità» del renzismo con la scelta neoliberale operata dalla sinistra dopo l’89): siccome lo Stato italiano della prima repubblica era uno Stato che godeva, per una serie di ragioni storico-politiche, di una relativa autonomia dalle classi dominanti, quella stessa relativa autonomia passava per osmosi anche al Partito, la Dc, che con lo Stato viveva il rapporto parassitario.

Lo Stato della seconda repubblica è invece una struttura totalmente in balia degli appetiti delle classi dominanti, per cui anche il Partito-parassita finisce per acquisire quella caratteristica di subordinazione tipica del corpo che lo ospita.