Una posizione così dura nella maggioranza non se l’aspettava nessuno, e probabilmente neppure nell’opposizione. Il discorso di Mattarella mette con le spalle al muro il partito delle elezioni anticipate. Dunque non solo l’opposizione, che nel reclamare le urne in fondo ha sin qui fatto solo la sua parte, ma soprattutto la maggioranza che si preparava a insistere sulla richiesta di elezioni come unica alternativa al Conte ter. Quella strada, ha spiegato il capo dello Stato, porta dritti nel precipizio.

A naufragio già certificato il Pd puntava ancora a strappare il mandato per Conte. Era quello che Mattarella voleva evitare, nella convinzione che la situazione sarebbe finita di nuovo nella palude dei responsabili. Per evitarlo aveva puntato sul mandato esplorativo a Fico e in questi quattro giorni nulla gli ha fatto cambiare idea. Il disastro dell’esplorazione di Fico non aveva travolto solo il Conte ter ma ogni possibilità di resuscitare la maggioranza politica del Conte bis.

A segnalarlo era proprio il Pd, con quella nota informale con la quale accusava Iv di «aver rotto non con Conte ma con gli alleati». Dunque la sola alternativa al giocare la carta del governo istituzionale era proprio quel ritorno alla ricerca disperata di qualche senatore strappato qua e là che per il Colle era da escludersi. Perché nella migliore delle ipotesi non avrebbe comunque prodotto quella «maggioranza adeguata» che Mattarella aveva invocato all’atto di assegnare a Fico il suo mandato, nella peggiore sarebbe stata adoperata da Conte per forzare la mano verso il voto anticipato. Non c’è dubbio, infatti, che a incidere sulle scelte del Quirinale sia stata anche la convinzione che Conte volesse imboccare proprio la strada per il presidente più pericolosa, quella delle urne.

Ora tutto quel che è successo negli ultimi due mesi, tutte le affermazioni stentoree, i giuramenti, le parole ultimative, sono storia di ieri. Berlusconi, prima ancora che venisse annunciata la convocazione di Mario Draghi, aveva già chiarito che il bivio è «tra un governo di unità nazionale e il voto», di fatto confermando così la propria disponibilità. Gli alleati non si pronunciano. Salvini negli ultimi giorni ha fatto più volte balenare la possibilità di una sorprendente apertura della Lega, ma senza mai far saltare i ponti alle proprie spalle. Anche ieri, nel pomeriggio, aveva assicurato che la Lega non avrebbe appoggiato un eventuale governo Draghi «se avesse in programma la patrimoniale». È tutto tranne che un niet senza appello ma il leghista deve fare i conti con Giorgia Meloni, che non ha perso tempo nel dichiarare che «elezioni con un’affluenza bassa sono comunque meglio del non far votare gli italiani». Anche Salvini twitta un sintetico ma eloquente: «La sovranità appartiene al popolo», ma la partita a destra è tutta da giocare.

Lo smarrimento della maggioranza è inevitabile. Zingaretti vorrebbe votare ma nel suo partito è in minoranza, ha contro la stragrande maggioranza dei gruppi parlamentari e per il segretario del partito responsabile per eccellenza non è facile assumere una posizione descritta nei particolari dal presidente come irresponsabile e quanto mai dannosa per il Paese. «Draghi è un punto di partenza importante ma non risolutivo», se la cava balbettando Orlando. È probabile che anche tra le due anime di LeU, l’Art. Uno di Speranza e Bersani e la Sinistra italiana di Fratoianni, le reazioni saranno diverse: per la cultura politica di Art.

Uno non è semplice schierarsi contro il governo Draghi dopo un’esposizione come quella del presidente. Il punto interrogativo, come sempre, riguarda i 5S, già vicinissimi all’esplosione. Proprio quel rischio ha condizionato a fondo le loro posizioni nel corso della crisi ma ora il dilemma si ripropone in forma amplificata.
Renzi festeggia. Dal suo punto di vista ne ha tutte le ragioni. Draghi era sin dall’inizio la carta sulla quale puntava davvero, con il doppio obiettivo di spezzare l’alleanza tra Pd e M5S e di soffiare sulle fiamme che già divampano nel Movimento, puntando all’implosione. Ma la strada di quel governo istituzionale non è affatto facile. Se dovesse fallire è molto probabile che il presidente chiederebbe lo stesso un voto di unità nazionale per un governo in grado di reggere il Paese nel pieno delle sue funzioni almeno fino allo scioglimento delle Camere.