Con il generale Soleimani finisce nella tomba anche l’accordo nucleare del 2015: il governo di Teheran ha annunciato che non porrà più limiti all’arricchimento dell’uranio, agli stock di materiale arricchito, alla ricerca e allo sviluppo.

La tv di Stato non ha detto che l’Iran uscirà dall’accordo, al contrario manterrà le centrali aperte alle ispezioni dell’Aiea (Agenzia internazionale dell’Energia atomica), il suo programma è a scopi solo civili e tornerà a rispettare l’accordo quando ne avrà un qualche vantaggio, ovvero finiranno le sanzioni economiche e l’embargo petrolifero. Con Trump alla Casa bianca, sarà impossibile.

Nella tomba del generale finisce anche l’American dream: ieri mattina 150 cittadini statunitensi di origine iraniana sono stati fermati alla frontiera tra il Canada e lo Stato di Washington e trattenuti per 11-16 ore. Tanti altri sono stati bloccati negli aeroporti di Los Angeles e San Francisco.

Sono stati interrogati a lungo sulle loro opinioni politiche, sull’ultima volta che sono stati in Iran, sulle materie di studio all’università, la formazione dei genitori, la professione. Molti tornavano dalle vacanze natalizie, tanti altri avevano partecipato al concerto di sabato dei cantanti pop iraniani Masih e Arash al Chan Shun Concert Hall di Vancouver, Canada.

Pur avendo cittadinanza statunitense, pur essendo nati e cresciuti negli Stati uniti e avervi la residenza, gli è stato impedito di tornare a casa. La loro colpa è essere di origine iraniana e quindi potenziali terroristi. Nel 2017 Trump aveva già inserito gli iraniani nel decreto contro i musulmani, che ostacola l’ingresso dei cittadini di sette paesi perché potenziali terroristi, ma da cui restano paradossalmente esclusi i sauditi, anche se 15 dei 19 dirottatori dell’11 settembre erano sudditi di Riyadh.

Il fermo di centinaia di cittadini statunitensi di origine iraniana è la diretta conseguenza di quanto sta succedendo dopo che Trump ha dato ordine di assassinare Soleimani: secondo l’amministrazione Usa, il generale era arrivato a Baghdad per preparare un attacco contro i soldati americani.

In realtà, secondo il primo ministro iracheno, Soleimani era giunto in Iraq per ridurre le tensioni con i sauditi attraverso la mediazione di Baghdad.

In ogni caso, la sua uccisione è un atto di guerra, con conseguenze disastrose per la regione. Per ora i pasdaran non hanno mosso dito contro Washington, né lo hanno fatto i loro alleati in Libano, Siria e Iraq.

La bara di Soleimani a Teheran (foto: Ap)

 

A dire la loro sono stati invece i milioni di iraniani che in questi giorni si sono riversati per le strade di diverse città iraniane dove si sono tenute le commemorazioni funebri: domenica mattina ad Ahvaz, al confine con l’Iraq; domenica pomeriggio nella città santa di Mashhad nel nord-est; lunedì mattina nella capitale Teheran dove a guidare la preghiera è stato il leader supremo Khamenei; domenica pomeriggio nella città santa di Qum e – per finire – la sepoltura oggi a Kerman, la città natale di Soleimani. Ovunque, milioni di iraniani vestiti a lutto urlavano «Morte all’America».

Se per gli americani il generale era un terrorista, per gli iraniani era l’eroe che aveva respinto l’Isis. L’assassinio ha compattato l’opinione pubblica della Repubblica islamica e avvicinato iraniani e iracheni.

In visita alla famiglia di Soleimani, il presidente Rohani ha dichiarato: «Gli americani non si rendono conto del grave errore che hanno commesso. La vendetta arriverà quel giorno in cui le mani sporche dell’America saranno tagliate per sempre dalla regione». La figlia del generale, Zainab, ha messo in allerta gli Stati uniti, vedranno «giornate buie».

Intanto, Trump dice di essere pronto a bombardare 52 siti culturali, 52 come gli ostaggi presi nell’ambasciata statunitense a Teheran il 4 novembre 1979. Il ministro degli Esteri iraniano Zarif risponde che bombardare i siti archeologi dell’antica Persia sarebbe un «crimine di guerra». E aggiunge che «nei secoli i barbari hanno saccheggiato e distrutto le nostre terre, ma loro non ci sono più e noi siamo ancora qui».

Se gli Stati uniti non si fermano, il Medio Oriente rischia di trasformarsi in un altro Vietnam. Per limitare le azioni militari di Trump contro l’Iran, la Camera Usa voterà in settimana una risoluzione. E venerdì si terrà una riunione straordinaria dei ministri degli Esteri dell’Ue. Non è però scontato che buon senso e diritto internazionale abbiano la meglio.