«Per quanto riguarda l’ordinazione delle donne, la Chiesa ha parlato e ha detto no». Le nette chiusure pregiudiziali di papa Francesco, nel corso della conferenza stampa sull’aereo che lo riportava a Roma dopo la trasferta brasiliana, spandevano un sentore di atavico; quel senso di precarietà rimossa che ritorna alla luce tutte le volte che si scava nella psicologia collettiva interiorizzata nei modelli di rappresentazione che si sono succeduti nelle varie fasi dell’avventura umana. L’archeologia del pensiero come ricerca che fa emergere paure ancestrali, a suo tempo esorcizzate seppellendole nell’oblio di una concettualizzazione che le rimuove in quanto soggettività in campo.

Ad esempio, lo storico Christopher Hill, nella sua ricerca sui movimenti radicali al tempo della ]Grande Insurrezione inglese («Il mondo alla Rovescia»), racconta come Gerrard Winstanley, leader dei Diggers (la componente protocomunista nel New Model Army di Oliver Cromwell), apostrofasse i colonnelli del Lord Protettore «gentry di stirpe normanna»; testimonianza del trauma – persistente nella memoria popolare a oltre sei secoli – rappresentato dall’invasione culminata nella battaglia di Hastings (1066), data che sancì la sottomissione degli anglosassoni da parte di Guglielmo e dall’instaurazione di un dominio etnico.

Il terrore del femminile

Quattro anni dopo il saggio di Hill, nel suo corso 1976 al Collège de France, Michel Foucault andò a nozze ipotizzando che il Leviatano di Thomas Hobbes avesse come scopo inconfessato quello di neutralizzare il ricordo non ancora rimosso della «Conquista»; che, dividendo su base genetica il popolo britannico in vincitori e vinti, trasformava pericolosamente la guerra civile in una insanabile lotta tra le razze.

Altre volte si è parlato del timore sottotraccia che accompagna l’ordine democratico fino dalla sua instaurazione: la percezione inconfessata del potenziale sovversivo del demos. Ma c’è un pensiero ansiogeno ancora più ancestrale, che faceva capolino nelle parole di Bergoglio (top della più antica istituzione ancora operante a livello mondiale, seppure in fase di restyling): la paura delle donne. «Il femminile, quell’Ombra che è addirittura antecedente agli dèi, non cessa di agire come immenso labirinto in cui il logos ricerca l’altro da sé, l’altra parte rispetto al dominio». Parole di Johann Jakob Bachofen, il giudice di Basilea che, pubblicando nel 1861 «il Matriarcato», suscitò all’epoca un grande dibattito su quello che definiva «ordine ginecocratico»: una società dominata dalle donne, prima dell’avvento del patriarcato. Qualcosa di indicibile – dunque impensabile – per il potere costituito da alcuni millenni; la spia indiziaria di un’apocalisse, da cui emergono nuovi dominatori che confinano gli sconfitti (il femminile) nelle penombre domestiche. A permanente cancellazione di un’alternativa realizzata, dunque possibile, alla gerarchia incentrata sul paterfamilias.

Quali reperti e lacerti sopravvivono a tale tabula rasa? Tracce archeologiche, sopravvivenze religiose, sedimenti giuridici: messaggi nella bottiglia scarsamente intelligibili che ci giungono dalla prima rivoluzione neolitica e dal nuovo modo di produrre basato sull’addomesticamento di piante e animali a carico del femminile (in una divisione del lavoro in cui il maschile cacciatore resta legato ampiamente ai precedenti modi procacciativi paleolitici). Dunque, l’età della «Grande Dea» (Alma Mater mediterranea, Ana o Dana nell’Europa danubiana) come divinità della riproduzione e della fertilità in tutte le sue varie trasposizioni, che sopravvive nel pantheon sincretico dei conquistatori; della famiglia retta dal diritto materno (che – scrive Bachofen – «conserva il carattere tipicamente universale all’origine di ogni sviluppo e distingue la vita materiale dalla superiore vita spirituale»).

Il sesso è debole

Una civiltà, quella dei primi coltivatori organizzati attorno al femminile, che si intuisce intimamente legata alla terra e al ciclo delle stagioni, intrisa di pacifici valori religiosi. Dove – secondo André Martinet – «le tecniche agricole e la produzione di oggetti sembrano tenuti in maggior conto della pratica delle arti marziali». Un mondo investito a partire dal Quinto millennio dalle scorrerie e poi dalle invasioni dei nomadi bellicosi provenienti dalle steppe eurasiatiche. Kurgani indoeuropei? L’idea di un comune ceppo linguistico di quelle orde guerriere suscita ormai crescenti perplessità, non meno di una comune etnia. Quanto si sa al riguardo è che si tratta di popolazioni bellicose, estremamente mobili a seguito dall’addomesticamento del cavallo; prima aggiogato al carro da guerra (Hittiti), poi – dopo il perfezionamento del morso come tecnica di governo della cavalcatura (1.500 a.C.) – montato direttamente (Cimmeri e Sciti).

Da quel momento l’intera ecumene mediterranea viene asservita alle logiche dei conquistatori, che per consolidare il proprio potere devono mettere fuori gioco le ragioni dei conquistati cancellandole. La cultura al maschile come rimozione persino del ricordo del matriarcato, estirpato dalle menti delle donne attraverso una sorta di lobotomizzazione del loro cervello collettivo.

L’affermazione dell’idea del sesso debole e inabile, che attraverso una sistematica riproposizione produrrà nelle imprigionate una sorta di «sindrome di Stoccolma collettiva»: l’idea conculcata della donna «essere inferiore» fonte di guai per il suo compagno. Una sorta di criminalizzazione declinata già nel suo prologo mitologico: nella cultura biblica sarà Eva e il suo pomo a cacciar nei guai il povero Adamo; agli albori della letteratura greca Le opere e i giorni di Esiodo individuano la causa di ogni male in Pandora e il suo vaso. Poi Aristotele e i Padri della Chiesa formalizzeranno definitivamente il giudizio. Dice il presunto «maestro di color che sanno»: «si deve supporre che la natura femminile sia come una menomazione». Gli fa eco il Doctor Angelicus Tommaso , che nella Summa theologiae ne riprende la definizione della donna in quanto «maschio mancato» (mas occasionatus). Qualcuno arriverà a dubitare perfino dell’anima al femminile.

Misogenia domestica

Le donne, confinate all’interno della casa, mantenute in una condizione di ignoranza e di atrofizzazione delle capacità critiche attraverso l’esclusione dai processi formativi, vengono definitivamente ingabbiate nella costruzione sociale dell’idea di «genere» («donna non si nasce», disse Simone de Beauvoir). Come ha scritto di recente Alain Touraine, «l’idea di genere implicava una forma di determinismo sociale, se non addirittura ideologico, dei comportamenti femminili. Il presupposto era che le donne agissero in funzione del posto occupato nella società; la loro soggettività era quindi solo una mescolanza di riflessi e illusioni, e questa le rendeva incapaci di azione autonoma». Operazione altamente manipolatoria contro cui già negli anni Ottanta e Novanta si era scatenata la critica radicale sia del pensiero della differenza che del femminismo Queer. Lasciando ancora in dubbio se, sulle rovine del concetto di genere, la liberazione dal potere maschile presupponesse il perseguimento dell’uguaglianza o l’affermazione della differenza.

Stretta in questa nuova trappola concettuale e minacciata dagli schiacciapietre della restaurazione gerarchico-patriarcale, trainata dalla finanziarizzazione del mondo sotto le insegne neoliberiste, la subalternità femminile rischia riproposizioni in forme nuove: la nuova mascolinizzazione unisex di «uome» (donne in carriera più maschio del maschio), che si misurano sul terreno manageriale e possessivo tracciato dall’assiomatica dell’interesse.

Minaccia incombente, se non trova il modo di sovvertire rapporti di forza attraverso strategie di alleanze tra quanti fuoriescono dal paradigma della coppia eterosessuale finalizzata alla riproduzione; diventando «movimento» che aggrega: per la liberazione e l’armonia di una società più al femminile. Quanto può avvenire solo prendendo coscienza della propria specificità; non biologica ma quale minoranza la cui cultura è stata conculcata.