I risultati dell’elezione di Midterm dimostrano ampiamente che anche la forma presidenziale di governo, pur non essendo quella che trae il massimo di democrazia dalla rappresentanza politica, contiene contrappesi rilevanti che ne impediscono derive autoritarie. Coloro che hanno denominato presidenzialista la tendenza che da un ventennio a tale deriva sta trascinando la forma di governo in Italia possono ora constatare che impropriamente e non tanto negativamente denominavano una regressione ben più grave e profonda. Quella diretta a soffocare la democrazia italiana mediante la mutazione genetica delle elezioni che da strumenti del potere popolare di rappresentarsi per l’esercizio del potere statale venivano trasformate in atti di investitura, da parte dello stesso potere popolare, del titolare unico del potere statale.

Renzi è il prodotto di tale deriva, ne ha carpito il senso, se ne è impadronito, lo ha iscritto sulla sua bandiera, lo ha assunto come programma di governo per tradurlo in regime. Ha colto il grado di erosione subito dalla nostra Costituzione quanto ad effettiva fedeltà alle sue norme e al suo spirito, anche, se non soprattutto, da parte dei vertici dello Stato. Ne ha dedotto la necessità di stabilizzare questa deriva formalizzandola col massimo possibile di forza giuridica, la forza della legge costituzionale.

Il senso delle riforme istituzionali di Renzi è questo. Coinvolge gli aspetti salienti del disegno di legge sulla “riforma” del Senato e di quello sulla legge elettorale. Offre compattezza ed organicità a ciascuna delle due normative proposte e le integra. Soprattutto sottrae il disegno complessivo ad un esame e ad una valutazione conformi a Costituzione. E non per caso.

Innanzitutto perché il parlamento cui è demandata l’approvazione dei due disegni di legge, – non mi stanco di rilevarlo – è illegittimo per incostituzionalità, accertata dalla Corte costituzionale, della legge sul procedimento di elezione di tutti e due i suoi rami. Una declaratoria di tal tipo, in uno stato di diritto e in un paese civile, avrebbe dovuto comportare lo scioglimento delle due camere. In Italia, invece, si consente ad un parlamento illegale di legiferare anche in materia costituzionale e, addirittura, al fine di instaurare un nuovo regime politico. Quello che deriverebbe dalla congiunzione della cosiddetta “riforma” del Senato col sistema elettorale denominato italicum. Un regime che eliminerebbe ogni contrappeso al potere esecutivo, ogni contropotere da opporre a quelli del capo del Governo. La congiunzione dell’una e dell’altra “riforma”, già per essere stata proposta, sottrae il suo contenuto ad un procedimento legislativo sostanzialmente conforme a quello costituzionalmente prescritto dalla Carta costituzionale. Lo sottrae perché svuota, liquida, vanifica lo strumento principe di partecipazione alla deliberazione parlamentare: l’emendamento.

Emendare significa correggere, migliorare, espungere difetti, eliminare imperfezioni. Suppone un testo emendabile. Ha sempre ad oggetto espressioni normative specifiche, non può riferirsi ad un disegno complessivo di regime politico, perché implicherebbe la sua incessante iterazione a fronte di ogni enunciato o frammento di enunciato.

Infatti. Un testo che prevede un Senato di consiglieri regionali e di sindaci (uno per regione) eletto dai consiglieri regionali, un Senato che si compone quindi di esponenti di un ceto politico che, secondo le Procure della Repubblica, non si è rivelato come esemplare per dedizione rigorosa al pubblico interesse, si può emendare solo proponendo una sua radicale ed opposta derivazione e composizione. Il disegno normativo di organo ideato come strumento di legittimazione permanente del governo e del suo capo perché tramite obbligato per la erogazione da parte del governo delle risorse finanziarie necessarie alle regioni e ai comuni può essere emendato solo configurandolo come organo di garanzia, attribuendogli funzioni limitative e condizionanti del potere del governo.

Non lo sono quelle previste dal testo approvato dal Senato l’8 agosto scorso. Non sono tali le competenze partecipative alla legislazione costituzionale ed in materia di (alcuni) diritti, alle decisioni concernenti la formazione e l’attuazione degli atti normativi dell’Ue, al raccordo tra Ue, Stato ed altri enti costitutivi della Repubblica. Non lo è la partecipazione in misura non certo rilevante alla elezione del Capo dello stato, dei membri non togati del Csm e alla composizione della Corte costituzionale con l’elezione di due giudici. Nulla quindi che possa empècher, poco da statuer.

Quanto alla legge elettorale, come si può emendarla se si vuole che debba, in ogni caso, precostituire maggioranza e governo all’atto stesso delle elezioni? Che debba poggiare sul cosiddetto “premio di maggioranza”, su di un falso di evidenza immediata ed indiscutibile e, perciò, assente da ogni legge elettorale d’Europa. Un falso che privilegia quella che è, e resta, una delle minoranze, pur se si è avvicinata alla metà più uno dei voti ma senza raggiungerla. Una minoranza che col “premio” si appropria di seggi che sottrae a tutte le altre minoranze, quelle che, sommandosi, formano la maggioranza numerica ed effettiva dei voti espressi. Un “premio” che quindi viola un principio fondamentale della democrazia, il principio di eguaglianza secondo cui a condizioni, a situazioni uguali (nella specie, quella di minoranza) debba corrispondere trattamento eguale. Che dà tutto il potere a chi decide le candidature e le assegna e che, come leader del partito che ottiene un voto in più di ciascuno degli altri, diventa capo del governo.

Il nuovo regime politico che Renzi mira a instaurare è questo. È la questione della democrazia in Italia che il parlamento, che la sinistra del Pd soprattutto ha di fronte. Non la si può affrontare con gli emendamenti. Perché non sono emendabili. Vanno integralmente respinti. Per bloccare la rottamazione della democrazia da parte dell’autoritarismo in camicia bianca.