John Lurie il musicista, l’attore, il pittore e il pescatore. Per quanto questo possa suonare come un ritratto schizofrenico, la «polifonia» di un artista come Lurie ha attraversato liberamente quattro decenni di (contro)cultura americana: fondatore e sassofonista, negli anni ’70 insieme ad Arto Lindsay, del seminale gruppo punk/free-jazz The Lounge Lizards, attore di preziosi camei in film come Cuore selvaggio, Paris, Texas e L’ultima tentazione di Cristo e ideatore della serie tv Fishing with John dove andava a pescare in giro per il mondo, non senza digressioni filosofiche come in un libro di Jerome, in compagnia di amici come Tom Waits, Jim Jarmush e Dennis Hopper.

 

 

 

 

Da circa dieci anni però John Lurie ha abbandonato viaggi, palchi e sassofono a causa di una insidiosa malattia, altamente infettiva, la sindrome di Lyme, che ha danneggiato il suo sistema neurologico, e il rapporto con un mondo che improvvisamente ha finto di non conoscerlo, a tal punto da fargli percepire, quando ascolta musica, come delle unghie che graffiano una lavagna. E così, quei disegni infantili e precoci, che la madre artista appendeva vicino ai suoi, sono ritornati, invasi da un impulso musicale indomito e senza requie che ha forgiato l’ultima metamorfosi di Lurie, il pittore appunto, per confluire, per la prima volta in Italia dopo numerose esposizioni in giro per il mondo, nella mostra Home is not a place. It’s something else, fino al 31 gennaio alla galleria M77 di Milano.

 

 

Nel limbo fluido dei suoi acquerelli, scelta compositiva di mistero e «pericolo», Lurie miscela storia, mitologia e ironia traendo forza dalla potenza di colori intensi, inaspettate giustapposizioni e spaesamenti geografici che mescolano America, Africa e Asia per formare un paesaggio che sembra quasi un ritorno alle lande compatte di una Pangea ignara della futura deriva dei continenti. Come nella sua musica, violenta ed estatica, il gesto pittorico di John Lurie deraglia la grammatica del presente per conquistare nuovi orizzonti popolati da animali antropomorfi e uomini sperduti in panorami ostili e in una narrazione onirica che si contamina di sbornie noir mentre l’acquerello, fluttuante e obliquo, sembra «tranquillizzare» il visitatore quasi dichiarando, per sua stessa natura, la dimensione sganciata dalla nettezza del reale. In questo primitivo trasferimento di energia psichica, l’importanza e la violenza del colore, e un altrettanto primigenio «horror vacui», sembrano far risuonare nuovamente l’urlo cromatico di Jackson Pollock e di quelle opere ebbre di spiriti e inconscio realizzate dai nativi d’America con enorme devozione ma soprattutto per trasmettere una conoscenza sapienziale, dove la bellezza non è la causa finale dell’opera ma una conseguenza inevitabile.

 

 

In questo continuo cortocircuito fra terra e mente, ad accompagnare le oltre sessanta opere in mostra, i titoli dei quadri, parole dall’inconfondibile cifra narrativa ma soprattutto musicale, che sembrano squarci di un racconto per immagini che si completa dopo la visione intera del grande spazio espositivo.

 

 

 

Frasi surreali, ambigue ed enigmatiche («Lo scheletro nel mio armadio è andato in giardino», «Un uccello cade vicino alla spazzatura cinese», «La gente al banchetto di nozze trova la libertà sessuale in Cina») che sembrano quasi strofe di canzoni di uno sciamanico album incompiuto, intrappolato dalla violenza dei pigmenti e da una mente che condanna al silenzio